Care lettrici e cari lettori di Domani, questo è un nuovo appuntamento con Areale, la newsletter sull’ecologia, la crisi e l'azione climatica (iscriviti qui).

Sono settimane intense, sono i giorni in cui si scrive il futuro. Giovedì 22 aprile è stata la Giornata della Terra ed è iniziato il Leaders Summit on Climate convocato da Joe Biden, un G20 allargato, con i colpevoli e le vittime della crisi climatica collegati in streaming e in diretta pubblica, per rafforzare la strada che porta a Glasgow e alla COP26.

Contavano gli impegni, le parole e un po' anche l'estetica delle inquadrature scelte dai leader mondiali. In questo tipo diplomazia anche il contesto diventa testo. Il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in aveva una mini pala eolica in bella vista sul tavolo, quello delle Isole Marshall David Kabua alla sua sinistra aveva un walap, l'imbarcazione tradizionale dell'arcipelago.

Il walap è una canoa a vela. Per millenni è stato il sistema tecnologicamente più avanzato per navigare l'Oceano Pacifico, poteva affrontare traversate di centinaia di miglia marine tra le 1500 isole dell'arcipelago, che è lo stato sovrano con la maggior porzione del proprio territorio fatta di acqua (più del 97 per cento). Il modellino di walap era ben dentro il senso del messaggio che Kabua, a nome di tutti gli stati insulari del mondo, ha lanciato al mondo. «Per noi l'adattamento climatico è sopravvivenza, la crisi climatica minaccia i nostri diritti fondamentali. Per millenni, questo popolo ha navigato tra le isole per costruire la nostra comunità e la nostra cultura. Oggi stiamo navigando nella tempesta del cambiamento climatico».

È stata una scelta simbolicamente forte far parlare il leader di un remoto paese di meno di 60mila abitanti, un solo metro sopra il livello del mare, insieme ai grandi inquinatori mondiali, Cina, Russia, Brasile, gli Stati Uniti stessi.

Qui abbiamo parlato dei progressi di Biden per isolare la diplomazia del clima da ogni altra tensione. E qui della «dannazione del carbone», che frena lo sviluppo verde cinese.

La strategia ecologica del governo

C'è un altro passaggio da inserire nel file «settimane che scrivono il nostro futuro»: da lunedì 26 aprile si discute in Parlamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza, da presentare all'Europa entro la fine del mese. Avere un programma di investimenti e riforme solido è uno dei motivi per cui durante una pandemia, e all'inizio della campagna vaccinale, abbiamo affrontato una crisi di governo. Al vertice sul clima Draghi ha ammesso che dopo l'Accordo di Parigi non è stato fatto abbastanza, ha ricordato la fragilità del nostro territorio, ha chiesto di agire ora per non pentircene poi. Ha insomma confermato la linea «ambientalista di governo» inaugurata col suo discorso al Senato.

Come sta andando questo ambientalismo di governo, dunque? Innanzitutto, Draghi ha scelto di comprimere lo spazio della discussione sul Recovery Plan, lasciando solo una manciata di giorni alla valutazione pubblica e alla discussione parlamentare. Dalle prime bozze, il piano non sembra verde come sperato. La missione transizione ecologica ha meno fondi del piano precedente (da 68,9 a 57,01 miliardi). Quasi la metà vanno alla rete dell'alta velocità ferroviaria. La parte sullo sviluppo delle fonti rinnovabili è esile e con poca strategia, c’è poco spazio all’efficienza energetica, si punta molto sul biometano e soprattutto non sembra esserci distinzione tra idrogeno verde e blu. L'idrogeno verde è quello prodotto con le fonti rinnovabili ed elettrolizzatori ed è l'unico idrogeno pulito. L'idrogeno blu invece viene da fonti fossili e prevede la cattura e stoccaggio della CO2. Quello blu molto ai grandi produttori idrocarburi. I Verdi hanno anche denunciato la presenza nel Pnrr del deposito di stoccaggio di CO2 dell'Eni a Ravenna. Il ruolo di questa tecnologia sarà uno degli elementi più discussi della transizione ecologica italiana: il rischio è che una limitata tecnologia per eliminare CO2 dall'atmosfera diventi una grande scappatoia, una leva per continuare con le fonti fossili fino al 2050 e oltre.

Svolte verdi che non lo erano

A proposito di fonti fossili, idrocarburi e «svolte verdi», Re:Common ha analizzato quella dell'italiana Snam, una delle principali società di infrastrutture energetiche al mondo. Nel piano di investimenti al 2024 di Snam, 6,5 miliardi di euro (su 7,4 totali) sono destinati a infrastrutture per il trasporto di gas. Parte del piano di Snam è adattare la rete attuale del gas anche al trasporto di idrogeno, ma sull'idrogeno bisogna sempre capire se parliamo di idrogeno pulito (verde) o sporco e ripulito (blu). L'accusa di Re:Common è che Snam voglia «allungare la vita al gas fossile», anche usando il Recovery Plan, le cui ambiguità sull'idrogeno in effetti non aiutano.

Serve un po' di ottimismo?

Eccolo: secondo uno studio di Carbon Tracker le fonti rinnovabili sono in grado di produrre 100 volte l'energia che serve al mondo. Avete letto bene: 100 volte. Vento e sole possono davvero ripulire tutta l'energia che usiamo e permetterci di smettere di bruciare fonti fossili. Il titolo del rapporto è bello, Sky's the limit, è ancora più bello questo numero, 6700 PetaWatt/ora, il potenziale di eolico e fotovoltaico raggiungibile con le attuali tecnologie. Una quantità che, appunto, basterebbe a soddisfare la domanda energetica di cento pianeti come il nostro.

Scrive Carbon Tracker: «Le opportunità hanno appena iniziato a sbloccarsi, con il crollo dei costi la crescita può essere esponenziale, la marea sta arrivando veloce». Dovremmo navigarla spediti e veloci come su un walap, come suggeriva il presidente delle isole Marshall, per eliminare le fonti fossili dall'elettricità nel 2030 e da ogni settore nel 2050. Questi sono i termini della partita, è solo così che si vince, è solo così che si sopravvive.

La natura non è una fortezza

Di cosa parliamo quando parliamo di territori incontaminati? In Areale avevamo parlato di uno studio internazionale che aveva quantificato al 3 per cento i luoghi non toccati dall'uomo sulla Terra. La ricerca è girata tanto, l'hanno condivisa Greta Thunberg e Leonardo DiCaprio, ed è stata un'occasione per parlare del piano globale di portare le aree protette del mondo al 30 per cento entro il 2030. Però è anche il momento di farci delle domande, di problematizzare una visione della natura che spesso è occidentale e coloniale, perché non tutti gli esseri umani vivono allo stesso modo e hanno lo stesso rapporto con gli ecosistemi.

In occasione dell'Earth Day è uscita una campagna di Survival International contro l'obiettivo del 30 per cento. Perché? Chi non vorrebbe aumentare le aree protette? Nel mondo ci sono 300 milioni di persone che appartengono a popoli indigeni o tribali, vivono principalmente nelle aree che si vorrebbero rendere protette, hanno dimostrato di essere i migliori custodi della biodiversità e rischiano di ritrovarsi senza terra e diritti a causa dell'attuale modo di proteggere l'ambiente sigillandolo.

La «conservazione fortezza» impone una segregazione tra gli ecosistemi e gli esseri umani, non importa quale sia il loro stile di vita e rapporto con la natura. Una dichiarazione sui limiti del modello attuale è stata firmata da oltre 230 organizzazioni ed esperti. È un dibattito importante, su come fare conservazione della natura, non a discapito dei popoli indigeni ma con la loro alleanza e partecipazione, senza calare progetti e soluzioni dall'alto.

Un oceano senza squali

Riuscite a immaginarlo? C'è qualcosa di ancestrale nel rispetto e nella paura che riserviamo agli squali, forse solo i lupi hanno un ruolo così profondo nel nostro immaginario. Eppure, nessuno vorrebbe un oceano senza squali.

Questa però è la prospettiva alla quale andiamo incontro, secondo una ricerca pubblicata questa settimana su Nature. Negli ultimi cinquanta anni la popolazione di squali negli oceani è crollata del 70%. Senza questo apex predator rischia di venire meno tutta la catena alimentare degli oceani, un rischio per gli ecosistemi, ma anche per la salute e l'economia delle comunità costiere. La causa principale, come potete immaginare, è la pesca industriale, della quale gli squali sono doppiamente vittime, sia come obiettivo principale che come bycatch, impigliati nelle reti mentre si prova a catturare altro.

Scienza del clima e dei maschi

La scienza sul clima ha un problema di inclusività. Reuters ha appena pubblicato The Hot List, un magnifico elenco di mille scienziati che lavorano sulla crisi climatica, creato dal data journalist Maurice Tamman sulla base dei ranking accademico: pubblicazioni, citazioni accademiche, nella stampa, nei policy paper e sui social media. Su mille, ci sono venti ricercatori o ricercatrici italiane o che lavorano in Italia, e solo una donna ogni sette uomini (cinque su venti in Italia). Una di loro, Corinne Le Quéré, massima studiosa del ciclo del carbonio nell'atmosfera, ha raccontato a Reuters che «non sempre è stato facile questo percorso, circondata da uomini bianchi di una certa età, di un certo tipo, sempre molto sicuri di sé». Sempre a Reuters, sua figlia Marianne ha aggiunto: «L'ho vista tornare dalle conferenze e dire: "Quella persona è un maiale". L'ho vista tornare a casa e piangere». E parliamo di una delle più influenti e rispettate scienziate al mondo.

Praterie politiche e dissidi europei

Quanto vi sta a cuore la transizione ecologica? Quanto vi preoccupa la crisi climatica? Probabilmente dipende anche dalla vostra età.
L'Earth Day è stata occasione per lanciare ricerche, studi e iniziative, una è quella della onlus WeWorld, che ha condotto un sondaggio paneuropeo con Ipsos sulla percezione degli under 35 sui cambiamenti climatici. I dati più interessanti: il negazionismo è scomparso, in Italia la preoccupazione è superiore alla media europea e da noi ben otto giovani su dieci voterebbero un partito che ha l'ambiente come priorità. È la conferma di quanto diciamo da tempo, l'ecologia è una prateria politica ancora tutta da conquistare. Il sondaggio fa parte di ClimateOfChange, una campagna che mira a coinvolgere i giovani per creare un movimento pronto non solo a cambiare stile di vita ma anche a sostenere la giustizia climatica globale.

È uscita un'altra ricerca paneuropea sulle percezioni, dell'European Council on Foreign Relations, intitolata Europe’s green moment: How to meet the climate challenge. Cittadini ed esperti dei paesi dell'Unione sono divisi quando si parla di transizione ecologica. I punti di conflitto sono le proposte di carbon tax per dare un prezzo alle emissioni, il ruolo del nucleare nel mix energetico e soprattutto le conseguenze socioeconomiche della transizione, prima preoccupazione in diciannove paesi.

Si temono sia un costo maggiore dell'energia che un declino delle condizioni di vita. Come abbiamo visto e raccontiamo spesso, sono timori spesso ingiustificati (avevamo mostrato qualche settimana fa per esempio che la bolletta italiana sarà più cara con le nuove centrali a gas che con un mix equivalente di rinnovabili), ma sono anche la misura di quanto non sia solo importante fare la transizione ecologica, ma anche comunicarla nel modo corretto. Il populismo è sempre in agguato.

Per questa settimana siamo arrivati alla fine, grazie per aver letto fin qui! Come sempre, se avete dubbi, perplessità, commenti, incoraggiamenti, mappe nautiche delle isole Marshall o storie di incontri con squali, scriveteci a lettori@editorialedomani.it.

Buon sabato, Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata