La ripresa del dialogo sui cambiamenti climatici tra Cina e Stati Uniti contribuirà a rilanciare la relazione bilaterale tra la prima e i secondi emettitori mondiali di anidride carbonica, oppure l’atmosfera da quasi Guerra fredda che si è instaurata negli ultimi mesi impedirà a Pechino e Washington di mettere in campo politiche comuni per dare sostanza agli accordi di Parigi del 2015?

L’intervento di Xi Jinping alla Giornata globale della terra convocata in videoconferenza da Joe Biden ha confermato l’interesse della leadership del Partito comunista a placare lo scontro con una potenza che minaccia di rallentare la corsa della seconda economia del pianeta. Tuttavia a Zhongnanhai (la residenza accanto alla Città proibita dove vivono e lavorano i pezzi da novanta del Partito) c’è la consapevolezza che America is back vuol dire anche che l’ambizioso rilancio di Biden rispetto agli obiettivi prefissati da Obama può sottrarre alla Cina quella leadership climatica che aveva rivendicato durante l’interregno negazionista di Trump.

Sottolineare i progressi

I media di stato hanno spiegato che con la sua presenza al vertice online di ieri, il presidente cinese ha inteso anzitutto sottolineare i progressi compiuti dalla Cina negli ultimi anni per quanto riguarda la tutela dell’ambiente. Nello stesso tempo però ha chiarito che ogni ulteriore sforzo rispetto agli impegni già assunti sarebbe per la Cina insostenibile. Per questo – ha aggiunto il Global Times – Pechino farà fronte comune con Mosca per impedire che gli Usa «costringano altri paesi ad accettare l’agenda climatica di Washington».

La settimana scorsa Xi aveva già avverto il suo omologo francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel che la battaglia contro i cambiamenti climatici «è una responsabilità comune e non deve diventare una pedina di scambio geopolitica o utilizzata per attaccare altri paesi e imporre ulteriori barriere», un riferimento alla risoluzione recentemente approvata dal Parlamento europeo – parte del Green deal dell’Ue – che istituisce un Carbon border adjustment mechanism (Cbam) per tassare prodotti e materie prime importati da paesi con politiche climatiche lasche.

La Cina è responsabile del 28 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica (più dell’insieme di quelle degli Stati Uniti e dell’Ue). Pechino si è impegnata a raggiungere il picco di emissioni nel 2030 e la neutralità climatica (il punto in cui le emissioni di gas serra non superano la capacità della terra di assorbirle) entro il 2060, dieci anni più tardi rispetto a Stati Uniti, Unione europea e Giappone.

Nonostante decenni di crescita economica ininterrotta, la Cina è ancora classificata come «paese in via di sviluppo» in base agli indicatori del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e del Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo. Ciò si riflette sul suo fabbisogno energetico che – contrariamente a quello dei paesi più avanzati – continuerà a crescere in fretta nei prossimi decenni, anche per soddisfare le esigenze energetiche e di sviluppo umano della sua popolazione (il 40 per cento della quale vive in aree rurali).

I tempi sono cambiati

Eppure la Cina non è più il paese che, nel 1997, stendeva il tappeto rosso a Lee Raymond, le cui teorie contro il Protocollo di Kyoto venivano applaudite al Congresso mondiale del petrolio a Pechino, mentre la sua ExxonMobil firmava contratti miliardari con le aziende di stato cinesi. A partire dal secondo decennio del Duemila, la coscienza ambientalista si è diffusa sempre di più tra la classe media cinese (che può essere considerata l’ideale constituency di Xi e della sua Nuova era), preoccupata in particolare per l’apocalisse atmosferica della Cina, l’aspetto più drammaticamente evidente della catastrofe ambientale provocata da un sistema di sviluppo accelerato e, fino a qualche anno, fa incontrollato.

Oggi la Cina è il maggior produttore di energia idroelettrica e solare, con rispettivamente 13,23 e 48,2 gigawatt installati nel 2020, anno record anche per gli impianti eolici messi in funzione, il doppio di quelli sorti nel resto del mondo nel 2019, secondo Bloomberg new energy finance. L’industria dell’auto elettrica è in pieno boom. E il 14° Piano quinquennale (2021-2025) mira a portare le fonti non-fossili al 20 per cento del mix energetico nazionale. Anche i prodotti finanziari sono sempre più verdi: a Canton lunedì scorso ha aperto il quinto mercato nazionale di future legati alle tecnologie innovative e allo sviluppo green.

Ma persistono due elementi in grado di frenare la svolta verde della Cina. L’imperativo del “mantenimento della stabilità” che induce il Partito a rispondere a ogni crisi con massicci interventi pubblici, che continuano a spingere la domanda di acciaio e cemento: per uscire dalla pandemia, ad esempio, gli investimenti infrastrutturali sono aumentati del 29,7 per cento nel primo trimestre 2021, mentre nell’edilizia, nello stesso periodo, è stato registrato un incremento del 25,6 per cento.

E, soprattutto, l’energia che alimenta quello che rimarrà per lunghi anni un paese industriale – e che ha rimesso la (nuova) manifattura al centro dei suoi progetti di sviluppo – arriva tuttora in gran parte dal carbone, per il 56,8 per cento nel 2020. La Cina ha in funzione 1.058 centrali a carbone. È la dipendenza da questo combustibile fossile che le ha dato fin dal 2004 il triste primato delle emissioni di diossido di carbonio. In attesa di raggiungere il picco nel 2030, secondo il Global energy monitor l’anno scorso il paese ha aggiunto «il triplo di energia generata dal carbone rispetto a tutto il resto del mondo, l’equivalente di oltre una grande centrale a settimana». «Inoltre – prosegue lo studio del Centre for research on energy and clean Air – sono stati avviati progetti per nuovi impianti a carbone per oltre 73 gigawatt, cinque volte quanto nel resto del pianeta». Il motivo di questa vera e propria dannazione da carbone è semplice: si tratta dell’unica fonte energetica economica della quale il paese detiene riserve abbondanti e facilmente sfruttabili.

La Cina può fare di più e meglio contro i gas serra? I fondi che assecondano la transizione verde cinese sono convinti di sì. Secondo Zhang Jianyu – fondatore di Environmental defense fund – «la Cina può raggiungere il picco di emissioni molto prima del 2030, per centrare la neutralità climatica entro il 2060 avendo a disposizione più tempo per la formulazione di nuove politiche, per riorganizzare la struttura energetica e cambiare il modo di produzione e gli stili di vita». Ma Li Shuo di Greenpeace ricorda l’importanza di fissare un limite assoluto all’utilizzo del carbone e di fermare la costruzione di nuove centrali a carbone in Cina e all’estero (nei paesi attraversati dalla nuova Via della seta).

Tuttavia la posizione di fondo della leadership resta quella secondo cui l’onere principale del contrasto ai cambiamenti climatici ricade sulle economie avanzate. Intervistato dalla Associated Press, il viceministro degli Esteri, Le Yucheng, ha smorzato gli entusiasmi: per quanto riguarda gli obiettivi 30-60, «per un paese di 1,4 miliardi di abitanti non è facile mantenere questi impegni. Alcuni paesi chiedono alla Cina di fare di più, ma temo che ciò non sia molto realistico».

Non solo, i progressi verso gli obiettivi 30-60 non saranno nemmeno facilmente verificabili, anche perché a Pechino non c’è chiarezza sui dati né sulla metodologia di riferimento. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi da Zhou Xiaochuan. L’ex banchiere centrale ha spiegato che il calcolo delle emissioni è reso altamente impreciso da due fattori: il rifiuto di adottare un indice assoluto, a vantaggio di quelli relativi (come, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica per unità di Pil), che permettono di «giocare con i numeri»; e la mancanza di dati di riferimento credibili, come ad esempio quelli relativi al 2005, la “base” per calcolare il picco del 2030. In un lungo intervento sul quindicinale Caixin, Zhou ha auspicato – in linea con le associazioni ambientaliste – che per raggiungere la neutralità climatica nel 2060, la Cina dovrà fissare per i prossimi 30 anni obiettivi di riduzione delle emissioni assoluti, e non più legati alla crescita economica o ad altri parametri.

E ha concluso che «nessun dato ufficiale o autorevole è stato reso pubblico per il 2005, quindi si possono ipotizzare solo delle stime. Il pubblico certamente sospetterà che il nostro lavoro non è stato fatto bene o che non è trasparente, che le autorità si rifiutino di pubblicare dati ufficiali».

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