Negli anni Ottanta, gli scienziati hanno scoperto che composti chimici artificiali – i clorofluorocarburi, usati in refrigeranti, spray e schiume – stavano distruggendo l’ozono atmosferico. La risposta è stata rapida e storica: nel 1987 è stato firmato il Protocollo di Montreal. Oggi però questa ferita che si sta rimarginando paradossalmente potrebbe accentuare il riscaldamento terrestre
Quattro decenni fa, la comunità scientifica lanciava l’allarme: ogni primavera australe, sopra l’Antartide, si apriva una ferita invisibile nello scudo protettivo del pianeta. Oggi, secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (Wmo), quella ferita — il celebre buco dell’ozono — sta finalmente guarendo.
Lo strato di ozono si estende tra i 14 e i 30 chilometri di altitudine nella stratosfera. Qui, le molecole di ozono (O₃), composte da tre atomi di ossigeno, assorbono la radiazione ultravioletta del Sole, proteggendo la vita sulla Terra da mutazioni genetiche, cancro della pelle e danni agli ecosistemi. È, in pratica, il filtro solare del pianeta. Negli anni Ottanta, gli scienziati scoprirono che composti chimici artificiali — i clorofluorocarburi (CFC), usati in refrigeranti, spray e schiume — stavano distruggendo l’ozono atmosferico. La risposta fu rapida e storica: nel 1987, le nazioni del mondo firmarono il Protocollo di Montreal, un accordo internazionale per eliminare gradualmente i CFC e altre sostanze ozono-lesive.
«Il Protocollo di Montreal è probabilmente il miglior trattato ambientale mai realizzato», afferma Durwood Zaelke, esperto di politiche climatiche e fondatore dell’Institute for Governance & Sustainable Development. L’accordo ha raccolto adesioni globali, ha subito diversi emendamenti e ha portato all’eliminazione di oltre il 99 per cento delle sostanze dannose per l’ozono.
Secondo le proiezioni scientifiche, lo strato di ozono tornerà ai livelli pre-1980 entro il 2040 nelle medie latitudini e nei tropici, entro il 2045 sull’Artico e attorno al 2066 sull’Antartide. Ma il processo è lungo e soggetto a fluttuazioni. «Un singolo anno non definisce una tendenza», avverte AR Ravishankara, chimico atmosferico della Colorado State University. «La ripresa è reale, ma sarà graduale e non lineare».
Il paradosso
Paradossalmente, la chiusura del buco dell’ozono potrebbe accentuare il riscaldamento globale. Durante gli anni di massimo assottigliamento, la variazione dei raggi UV ha alterato la circolazione atmosferica, mitigando temporaneamente il riscaldamento in alcune regioni. Ora, con il ritorno alla “normalità”, i gas serra mostrano il loro impatto più chiaramente. È una lezione cruciale: anche le soluzioni ambientali devono considerare le interconnessioni del sistema climatico. Il successo del Protocollo di Montreal dimostra che la cooperazione globale funziona, ma ci ricorda anche che ogni intervento può avere effetti secondari.
50 anni fa, le missioni Viking su Marte
Mentre si discute sui risultati di una roccia marziana individuata dal rover Perseverance della Nasa che potrebbe aver conservato tracce di passata su Marte, va ricordato che proprio nella metà degli anni Settanta, la Nasa lanciò due missioni gemelle, chiamate Viking 1 e Viking 2, con lo scopo di esplorare Marte e — cosa molto ambiziosa — cercare segni di vita. E alcuni dei segni trovati sono ancora oggi oggetto di discussione tra gli scienziati.
Ogni missione era composta da un orbiter e da un lander. Viking 1 fu lanciata il 20 agosto 1975, Viking 2 il 9 settembre dello stesso anno. Entrambe toccarono la superficie marziana nel corso del 1976. L’orbiter serviva a mappare Marte e a trovare siti di atterraggio sicuri, mentre il lander studiava direttamente il suolo, l’atmosfera e conduceva esperimenti biologici.
I risultati degli esperimenti biologici non permisero di confermare la presenza di organismi viventi nel suolo marziano. Tuttavia, i Viking scoprirono che Marte possiede molti degli elementi chimici essenziali alla vita come la conosciamo: carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto, fosforo. L’atmosfera è sottile, dominata da CO₂, il suolo è freddo, secco, e non ci sono prove di organismi macroscopici.
Col tempo tuttavia, gli scienziati hanno ripensato alcune delle conclusioni dei Viking, in particolare alcuni test suggerivano reazioni nel suolo che potevano essere interpretate come attività metabolica, ma altri rilevatori (come il GC-MS, che misura composti organici) non trovarono molecole organiche in quantità convincenti.
Ipotesi recenti
Una proposta relativamente nuova riguarda il fatto che i tecnici dei Viking potrebbero aver involontariamente danneggiato forme di vita (se c’erano) introducendo troppa acqua nei test biologici. L’idea è che qualsiasi microorganismo su Marte potrebbe essere estremamente adattato a condizioni molto secche, usando magari sali igroscopici per estrarre umidità dall’aria, piuttosto che vivere in acqua liquida come la intendiamo noi. Se questa ipotesi fosse vera, allora alcuni esperimenti dei Viking potrebbero aver ucciso organismi semplicemente saturando il suolo con acqua. È un’ipotesi che non ha consenso pieno, ma che riflette quanto ancora non si sappia.
La particella più piccola dell’Universo
Che si tratti dei protoni e neutroni che compongono gli atomi, dei fotoni che percepiamo come luce o dei flussi di elettroni che alimentano i nostri smartphone, le particelle subatomiche sono ovunque: costituiscono la base stessa della realtà.
Eppure, paradossalmente, proprio per la loro natura infinitesimale tendono a sfuggire non solo alla nostra vista, ma anche alla nostra comprensione. Prendiamo la questione più intuitiva: le loro dimensioni. Fin da piccoli, ci viene insegnato a immaginare le particelle come microscopiche sfere colorate, entità solide che, in teoria, potremmo misurare con un righello in miniatura. In realtà, le cose sono molto più complesse.
Alcune particelle più grandi possono essere descritte in termini di “dimensione” in senso generico, ma quando si arriva a quelle davvero fondamentali, il concetto stesso di misura diventa sfuggente, se non addirittura privo di senso. Eppure la curiosità resiste. Basta un rapido sguardo a Google per capire che la domanda «Qual è la particella più piccola dell’universo?» appassiona molti. Ma forse, sottolineano gli esperti, la vera questione è: «Ha davvero senso chiederselo?».
Il problema del “piccolo”
«Ci sono molti modi di intendere ciò che è piccolo», spiega Janet Conrad, fisica delle particelle al Mit. «Un batuffolo di cotone è piccolo perché è leggero. Una sfera di metallo minuscola è piccola perché ha un raggio ridotto, anche se pesa molto di più del cotone».
La distinzione non è banale: una cosa è parlare di massa, un’altra di diametro. E c’è poi un’ulteriore differenza fondamentale, quella tra le due grandi famiglie di particelle. I fermioni, come elettroni e protoni, sono i “mattoni” della materia; i bosoni, come fotoni e gluoni, sono invece i “messaggeri” che trasmettono le forze tra i fermioni, tra tutti è famoso il bobone di Higgs che dà origine alla massa.
Ma la distinzione più cruciale è forse quella tra particelle fondamentali e non. Una particella si definisce fondamentale quando non può essere suddivisa ulteriormente con le tecnologie a nostra disposizione. Così, mentre un protone può essere “rotto” nei suoi costituenti più profondi – i quark – questi ultimi vengono considerati fondamentali.
Il paradosso delle dimensioni
Se dunque le particelle fondamentali sono i veri candidati al titolo di “più piccole”, il quadro si complica ulteriormente con il Modello Standard. Secondo questa teoria (o ancora ipotesi’) – la più precisa che abbiamo per descrivere il mondo subatomico – le particelle fondamentali non hanno alcuna dimensione. Sono punti matematici, privi di estensione spaziale. Chiedersi se una sia più grande di un’altra diventa quindi una domanda priva di significato, un po’ come domandarsi cosa ci sia “a nord del nord”. “Non possiamo immaginarle come biglie che orbitano attorno al nucleo”, spiega Juan Pedro Ochoa-Ricoux, fisico dell’Università della California, Irvine. “È più corretto pensarle come nuvole di probabilità”. Finora, non esistono prove che queste particelle abbiano una struttura interna. Ogni test condotto conferma l’idea che siano punti privi di estensione.
Il ruolo della massa
Per aggirare il problema delle dimensioni, i fisici preferiscono ragionare in termini di massa, spesso utilizzando la famosa equazione di Einstein, E = mc². Così, ad esempio, un elettrone ha una massa di circa 0,51 MeV/c², mentre il quark “up” – il più leggero tra i quark – pesa più del quadruplo. Eppure alcune particelle, come i fotoni, sembrano avere massa nulla, candidandosi a essere le vere “più piccole”.
Se guardiamo ai bosoni, il primato spetta al fotone, la particella di luce. I gluoni, anch’essi privi di massa, condividerebbero il titolo, ma sono più difficili da studiare perché restano confinati all’interno dei protoni e dei neutroni. Tra i fermioni, invece, il miglior candidato è il neutrino. La sua massa non è nulla, ma è così ridotta che resta ancora oggi incerta. Le stime più recenti parlano di un valore inferiore a un milionesimo di quello dell’elettrone.
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