Con 3° C di riscaldamento globale entro la fine del secolo, più di cinque miliardi di persone potrebbero essere esposte a temperature e umidità pericolosi per la maggior parte dei giorni dell’anno.

Le temperature sono considerate pericolosamente calde e umide per l’uomo quando l’indice di calore, una misura che tiene conto dell’umidità relativa nell’aria e della temperatura dell’aria, supera certi valori, ma che in ogni caso sono pericolosi se la temperatura supera i 39°C. 

Caldo infernale

AP Photo/Khalil Senosi

I giorni con tale temperatura possono causare crampi da calore e stanchezza, mentre quelli con un indice di calore dove la temperatura è superiore a 51°C possono causare colpi di calore e morte e sono considerati estremamente pericolosi.

Lucas Zeppetello dell’università di Harvard e i suoi colleghi hanno creato una serie di modelli che ricostruiscono scenari di emissioni di gas serra che tengono conto della popolazione globale e della crescita economica entro la fine del secolo. Questi scenari dicono che, senza ombra di dubbio la temperatura media globale aumenterà tra 2,1°C e 4,3° C entro il 2100. Sembra che lo scenario più probabile sia quello che vedrà un riscaldamento di 3°C, in tal caso le regioni tropicali e subtropicali sperimenterebbero giornate pericolosamente calde per un quarto o la metà di ogni anno entro il 2050 e per la maggior parte dell’anno entro la fine del secolo. 

In questo scenario, 5,3 miliardi di persone in India, Africa subsahariana e penisola arabica sarebbero esposte a temperature estremamente pericolose, con l’indice di calore che supererà i 51°C  per almeno 15 giorni all’anno entro il 2100. Luoghi molto più lontani dall’equatore potrebbero vedere tra i 15 ei 90 giorni di caldo pericoloso ogni anno. 

Cascade Tuholske della Montana State University, che non è stata coinvolta nel lavoro, definisce i risultati “allarmanti” e afferma che l’arresto delle emissioni è il modo migliore per evitare gli impatti del caldo estremo. «Abbiamo bisogno che le persone capiscano: il calore uccide», afferma Kristie Ebi dell’università di Washington a Seattle. «E non è necessario che si arrivi a tal punto per capirlo, è necessario intervenire prima, anzi adesso».

Fauna marina a rischio

AP Photo/Brian Inganga

Un gruppo internazionale di ricercatori ha messo in luce che circa il 90 per cento di tutta la vita marina presente sulla Terra sarà a rischio di estinzione entro il 2100 se le emissioni di gas serra non verranno ridotte. Nel loro articolo pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, il gruppo si è soffermato su come le emissioni di gas serra potrebbero avere un impatto su migliaia di specie marine nel prossimo futuro. Le emissioni di gas serra hanno un impatto sul clima mondiale in due modi. 

Aumentano la temperatura dell’atmosfera (e, conseguentemente della superficie terrestre e dei corpi idrici in generale) trattenendo il calore e, nel caso delle emissioni di CO2, rendono l’acqua più acida, come le bibite gassate. E poiché le emissioni continuano a essere immesse nell’atmosfera nonostante gli avvertimenti che giungono da scienziati di tutto il mondo, sono in corso ulteriori ricerche per conoscere quale sarà il reale impatto futuro. Nel nuovo lavoro i ricercatori hanno stimato quale potrebbe essere l'impatto futuro di determinati livelli di emissioni di gas serra sulla vita marina. 

In particolare hanno esaminato 25mila specie, inclusi pesci, batteri, piante e protozoi che vivono nei primi 100 metri degli oceani del mondo. Hanno scoperto che nello scenario peggiore, in cui le emissioni portino ad un aumento della temperatura atmosferica globale da 3 a 5 gradi Celsius, circa il 90 per cento di tutta la vita marina scomparirà. 

Tuttavia c’è un elemento che lascia un minimo di speranza: lo studio afferma che se le emissioni venissero ridotte nella misura delineata dall’Accordo di Parigi sul clima, che manterrebbe l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi Celsius, il rischio di estinzione sarebbe ridotto di circa il 98 per cento. La ricerca dice anche che i predatori più grandi sono più a rischio rispetto ai predatori più piccoli, soprattutto là dove le specie ittiche sono pesantemente pescate dagli esseri umani. Nel caso peggiore, le cui ricadute sull’esistenza dell’uomo stesso sarebbero terribili si avrebbe una situazione che non era stata vista dalla più grande estinzione nota avvenuta 252 milioni di anni fa.

Smart working e CO2

LaPresse

Lezioni a distanza, riunioni a distanza, incontri di vario genere a distanza: sembrerebbe davvero che evitare spostamenti in auto e utilizzare al massimo la “rete” elimini le emissioni di anidride carbonica in atmosfera. La realtà, però, è un po’ diversa. Certo non c’è confronto nella quantità di emissioni tra il muoversi per mezz’ora in auto e il collegarsi per un tempo simile via internet con altre persone, ma non si deve pensare che l’inquinamento – nel secondo caso – sia pari a zero.

Un nuovo studio condotto da una ricercatrice della Scuola di Scienze Sociali della Macquarie University, Jessica McLean, afferma che anche la vita online produce il suo inquinamento. Il motivo è banale: l’utilizzo dei computer o di un qualunque dispositivo elettronico e le energie che sono state usate per costruire tali dispositivi, oltre all’utilizzo dei vari data center e delle varie apparecchiature che permettono la vita di Internet, inquinano. E alcuni numeri valgono di più di mille parole. Partiamo però da un dato: un’auto normale produce alcune decine di grammi di anidride carbonica ogni chilometro percorso. Ebbene un’ora di videoconferenza invece, emette più di un chilogrammo di anidride carbonica e richiede in media 12 litri di acqua. Per le e-mail c’è da fare qualche distinguo: una mail breve inviata da uno smartphone e ricevuta da un altro smartphone tramite wi-fi procura l’emissione di 0,3 grammi di anidride carbonica. La stessa e-mail inviata da un computer da tavolo ad un altro computer simile causa l’emissione di 17 grammi di anidride carbonica, mentre una mail più lunga con un allegato inviata tra due computer simili produce 50 grammi di anidride carbonica.

Se si fa streaming poi, un’ora al giorno per tutto l’anno si produce 160 chilogrammi di anidride carbonica. Per questo ci potrebbe essere una riduzione, basta spegnere la telecamera o almeno non trasmettere in alta definizione: la quantità di gas-serra emessa scende a otto chilogrammi all’anno. Ma non si produce anidride carbonica solo facendo chat o mail, ma anche archiviando foto, audio, video e testo sui server. Lo studio ha scoperto che per ogni 100 GB di dati che si archiviano ogni anno vi è un’emissione di 0,2 tonnellate di anidride carbonica.

Certo è che telefonini, tablet e computer da tavola causano ben poche emissioni rispetto ai supercomputer, i computer cioè, che sono richiesti da chi ha necessità di un’enorme elaborazione di dati. In questo caso il loro utilizzo arriva a produrre 15mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Per non parlare poi di intelligenza artificiale la quale, se si tratta di un modello di grosse dimensioni, emette nel suo lavoro in un anno anche più di 300 volte l’anidride carbonica di un volo aereo intorno al mondo.

La scomparsa dei laghi artici

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Il riscaldamento del pianeta sta ormai toccando tutte le aree che lo compongono e l’Artico non è estraneo al problema, anzi, lo è ancora di più. La regione infatti, si sta riscaldando quasi quattro volte più velocemente rispetto al resto del mondo. I ghiacciai si ritirano, la fauna selvatica sta soffrendo profondamente e molti habitat scompaiono ad un ritmo record.

Ora è diventata evidente una nuova minaccia: i laghi artici si stanno prosciugando. Un nuovo studio, guidato da Elizabeth Webb del dipartimento di Biologia dell’università della Florida, e pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, fa lampeggiare una nuova spia sul cruscotto globale del clima. La ricerca di Webb rivela che negli ultimi 20 anni i laghi artici si sono ridotti o prosciugati completamente in molte regioni delle aree settentrionali del Canada, Russia, Groenlandia, Scandinavia e Alaska. E il fenomeno sta assumendo aspetti drammatici soprattutto negli ultimi cinque-otto anni.

I laghi in via di estinzione sono fondamentali nell'ecosistema artico. Sono una fonte importantissima di acqua dolce per le comunità e le industrie indigene locali. E anche le specie minacciate e in via di estinzione, compresi gli uccelli migratori e le creature acquatiche, dipendono dagli habitat lacustri per la sopravvivenza. Il declino dei laghi è comunque un fatto inaspettato. Gli scienziati infatti, avevano previsto che il cambiamento climatico avrebbe inizialmente ampliato i laghi presenti nella tundra, come conseguenza della fusione del ghiaccio terrestre e solo nei prossimi secoli ci sarebbe stata una loro essicazione. 

«Sembra invece, che la fusione del permafrost, il terreno ghiacciato che ricopre l’Artico, faccia drenare i laghi e ciò frena se non addirittura blocca questo effetto di espansione», afferma Webb. Alla fusione del permafrost contribuiscono non solo le temperature molto elevate, ma anche un aumento delle piogge autunnali. «L’acqua infatti», continua Webb, «trasporta calore nei terreni e ciò fa aumentare la fusione dei ghiacci presenti al loro interno. Questo è un ulteriore aiuto al drenaggio dell’acqua all’interno dei suoli». Lo studio è stato realizzando analizzando le foto satellitari da che hanno iniziato a riprendere le aree artiche.

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