La narrazione entusiastica sul futuro digitale, quello che passa sotto la parola “on-life”, è materia di tutti i giorni. Metterla in discussione, anche nella sua paradossale accoppiata con la transizione ecologica, sembra praticamente impossibile. Ma del resto è ipotizzabile “spegnere” internet? Ovviamente no, nonostante i sogni di autori come Theodore Kaczynski o John Zerzan e della letteratura primitivista. Dobbiamo prendere per buoni gli ecologisti che passano ore sul web dicendoci di non usare i bicchieri di plastica? È ridicolo, contraddittorio, ma pare di si.

Però, mentre accettiamo (sono il primo a farlo, nessun moralismo) tutto questo, dovremmo almeno avere il buon cuore di non prenderci in giro: il contemporaneo è in fondo anche una grande presa di coscienza sul fatto che non migliorerà nulla se non nella narrazione. È la dittatura di quello che chiamiamo “storytelling” rispetto al caro e vecchio attivismo.

Costi ambientali

Perché tutto questo? Inviare una mail è come tenere accesa la luce di una stanza per 24 ore, guardare circa un’ora di video su un iPad equivale al consumo elettrico di un frigo acceso per un anno intero, le mail totali di un ufficio per circa un anno equivalgono a centinaia di voli aerei (intercontinentali!) intorno al mondo. 

Eppure, parliamo di tetto del prezzo del gas o della luce elettrica ma non affrontiamo mai questo discorso sul peso ecologico del digitale. Ha senso dunque presentare i nostri innovativi progetti per salvare il mondo con il nostro Macbook che, da solo, inquina l’equivalente dell’emissione di 240 chili di combustibile fossile ogni anno e rappresenta, con la sua sola esistenza, qualcosa come lo sperpero di una tonnellata e mezzo di acqua?

Non è una domanda retorica come potrebbe sembrare, e forse non ci resta che abitare questa contraddizione non dissimile a chi nega il binarismo di genere e poi cambiando sesso fa di tutto per farsi riconoscere nel genere di destinazione accettando il calvario burocratico.

Tutto uguale

A visitor makes a photo at the TikTok exhibition stands at the Gamescom computer gaming fair in Cologne, Germany, Thursday, Aug. 25, 2022. Around 1,100 exhibitors from 53 countries expect tens of thousands gaming enthusiast daily for the first time since the COVID-19 pandemic at the world's largest gaming event. (AP Photo/Martin Meissner)

È l’ecologia stessa che in un’epoca che proporrei di chiamare “della fuga” diventa un pensiero assai più sfumato: le rivoluzioni sono più un desiderio che un atto politico e avvengono solo nella fragilità di un cambiamento epistemologico che ha la forma di un terremoto. La biosfera è tale perché al suo interno esiste la diversità della vita, nella biosfera tutto è retto dall’equilibrio della molteplicità delle forme della vita.

L’infosfera, come chiamiamo oggi l’avvolgerci di internet fino a renderla indistinguibile dalla vita materiale, al contrario, sembra il luogo in cui tutto appare simile, geopoliticamente livellante; osservate un animale in Africa, un suo simile in Asia: le diversità sono tantissime, ma poi prendete l’account di una ragazza di sedici anni su TikTok in Florida o in Francia e noterete delle somiglianze comportamentali impressionanti dal vestiario ai movimenti.

Forse inizia tutto con i videogiochi, non avveniva lo stesso per i cosiddetti media passivi, che sono stati uno dei primi grandi “livellanti” comportamentali e hanno contribuito in modo sostanziale a distribuire le condizioni di possibilità della infosfera. Come mettere insieme due dati, ovviamente contraddittori, oggi mi pare abbastanza urgente: internet è tutto ciò che accade e accadrà, eppure è anche tutto ciò che non permettere a nulla di accadere per il suo peso ecologico e per l’ineluttabile certezza che come ogni mezzo tecnico scomparirà.

Dominio politico 

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Il mondo, questo nostro unico mondo, si salva solo offline ma sembra davvero troppo presto per dirlo e nessuno vuole neanche affrontare la materia. Onlife, lungi da essere una descrizione neutrale di come la nostra vita sia tanto digitale che non digitale (come la mette giù per esempio Luciano Floridi), è in realtà il sistema di dominio politico e l’atmosfera forse più pesante da cui tutti, in fondo vorremmo uscire: solo che non sappiamo più neanche che esista un orizzonte al di là di questa uscita.

La gestione politica del digitale, l’avvento dei populismi o il cambio di rotta dei modelli a cui adeguarsi, mettono in scena un’idea di comunità inconscia che rivela poi le fantasie di una società e ne mette in luce i sogni onnipotenti o i fallimenti atroci. 

Il sistema digitale, per nulla anonimo o immateriale, sa esattamente che porno guardate e quante volte vi masturbate. Sa benissimo cosa comprate, se siete vegani ma poi strisciate il bancomat al McDonald quando siete tornati da una serata. Sa quanto siete ossessionati da cosa fa la vostra fidanzata, o chi stalkerizzate pensando di farlo con discrezione. Vi manda “nuovi ricordi” che fanno saltare l’idea dell’inconscio tradizionale, vi obbliga al confronto perenne con bellezze artificiali e produce algoritmi di consumo o conoscenza che vi fanno sapere solo quello che già sapete, comprate solo ciò che già pensavate di comprare. Livellate l’idea di viaggio, sapete prima cosa andrete a vedere, tutto è lasciato alla vostra capacità critica di auto-formarvi ma nessuno vi spiega come farlo.

Non pensate alle teorie del complotto, non c’entrano niente. Non si tratta dell’idea ridicola secondo cui il digitale sarebbe il piano immateriale con cui si diffondono politiche sempre più autoritarie. Al contrario, il digitale come qualsiasi altra tecnologia non fa che riprodurre, materializzare, estendere e intensificare per l’intera popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica o narcisismi personali già esistenti con l’aggiunta di rendere il pianeta in cui viviamo un colabrodo per sotterrare i server sotto qualche ghiacciaio. Ogni società, questa idea attraversa per esempio tutta la filosofia di Gilles Deleuze, potrebbe dunque essere definita dalla tecnologia dominante che la regola e norma quotidianamente.

Senza segreti

Arianna Velasquez, from Kansas City, Mo., takes a selfie in a sunflower field at Grinter Farms Thursday, Sept. 1, 2022, near Lawrence, Kan. The field, planted annually by the Grinter family, draws thousands of visitors during the weeklong late summer blossoming of the flowers. (AP Photo/Charlie Riedel)

Onlife è l’idea di una società senza segreti, il contrario esatto di quel “gusto del segreto” che secondo Jacques Derrida definiva la basilare possibilità di articolare una vita armonica e collettiva: lasciate traccia qualsiasi cosa fate, e al contrario della prima biopolitica - quella di Michel Foucault - siete felici di farlo: vi autofilmate, postate voi stessi prove e ricordi con cui sarete minacciati in futuro, date a mangiare al vostro algoritmo ogni possibile aspetto delle vostre vite e diventate schiavi di ciò che avrebbe dovuto liberarvi.

Certo, abbiamo smart car, app che ci dovrebbero proteggere dal contagio, tecnologia che crea avatar dei nostri morti più cari per “parlare” con loro, possiamo telefonare a un australiano percependolo come vicino a noi, a breve probabilmente stampe 3d e ologrammi perfezioneranno definitivamente l’idea di una socialità autistica e solitaria: ma questi bisogni, che tracciano una superficie di dominio molto precisa, non esistevano prima di essere stati creati.

Il digitale non esiste ma il potere, dunque noi stessi, lo usiamo moltissimo. E poi ha anche un peso: un satellite artificiale potrebbe caderci sulla testa da un momento all’altro rendendo Space Invaders molto più reale di quanto potessimo immaginare ma non saremo attrezzati a respingere gli invasori, perché saremo noi stessi.


Questo testo è un estratto del libro di Leonardo Caffo Velocità di fuga. Sei parole per la contemporaneità (Einaudi 2022, pp. 128). 

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