In questo momento l’umanità sta affrontando una sfida enorme: deve produrre cibo di alta qualità, diversificato e nutriente a sufficienza per sfamare una popolazione in crescita e farlo entro i confini del nostro pianeta. 

Ciò significa ridurre significativamente l’impatto ambientale del sistema alimentare globale se si vuole che il tutto non vada in tilt. Ci sono più di settemila specie di piante commestibili che potrebbero essere consumate per il cibo. 

Ma oggi, il 90 per cento dell’apporto energetico globale proviene da 15 specie di colture, con più della metà della popolazione mondiale che fa affidamento solo su tre colture di cereali: riso, grano e mais. Per tanti motivi ridurre il consumo e la produzione di questi alimenti per intensificarne altri, offrirebbe un’opportunità unica per migliorare sia la nostra salute e la sostenibilità ambientale del sistema alimentare.

L’agricoltura infatti, è uno dei principali motori dei veloci mutamenti ambientali in atto. È responsabile di un terzo di tutte le emissioni di gas serra e di circa il 70 per cento dell’uso di acqua dolce. Utilizza inoltre il 38 per cento del territorio mondiale ed è il principale fattore di perdita di biodiversità.

È noto come le diete occidentali contenenti una notevole quantità di calorie e carne animale tendano ad avere un grande impatto ambientale, ma diversi studi rilevano preoccupazioni ancor più elevate circa gli alimenti “ultra-lavorati”.

Con questa definizione si intendono cibi che vengono notevolmente trasformati prima di essere venduti. Ne sono un esempio i piatti pronti, gli alimenti confezionati, come merendine, patatine e simili, ma lo sono anche la maggior parte dei dolciumi e dei cibi da fast food.

Gli impatti di questi alimenti sulla salute umana sono ben descritti, ma gli effetti sull’ambiente sono stati meno considerati. Questo è sorprendente, considerando che gli alimenti ultra-lavorati sono una componente dominante dell’offerta alimentare nei paesi ad alto reddito (e le vendite stanno aumentando rapidamente anche nei paesi a basso e medio reddito).

Il loro posto potrebbe essere facilmente sostituito dagli alimenti “tradizionali”, come frutta, verdura, cereali integrali, legumi conservati, latticini e prodotti a base di carne, che sono minimamente lavorati o realizzati con metodi di lavorazione tradizionali.

La lavorazione tradizionale, come la fermentazione, l’inscatolamento e l’imbottigliamento hanno anch’essi impatti sull’ambiente, ma sono fondamentali per garantire la sicurezza alimentare globale, gli “alimenti ultra-lavorati” invece, vengono sottoposti a trattamenti ben oltre quanto necessario per la sicurezza alimentare, la quale serve soprattutto per permettere una lunga conservazione e sopportare variazioni ambientali anche notevoli.

Negli Stati Uniti i tassi di consumo di cibo ultra-elaborato sono particolarmente elevati, tanto da arrivare al 57,9 per cento, seguiti dall’Australia con il 39 per cento e poi da Belgio, Brasile, Colombia, Indonesia, Italia, Malesia, Messico e Spagna. Detto ciò va ricordato che gli alimenti ultra-lavorati vengono prodotti trasformando solo un piccolissimo numero di specie adatte alla coltivazione, il che grava pesantemente sull’ambiente là dove vengono coltivate ​​queste sostanze. Inoltre, gli ingredienti di origine animale per gli alimenti ultra-lavorati provengono da animali che fanno affidamento anch’essi su queste stesse colture.

Per contrastare tutto questo, le risorse per l’alimentazione umana in tutto il mondo potrebbero essere reindirizzate alla produzione di alimenti più sani e meno trasformati.

I misteri irrisolti della Luna

Fino a poco tempo, la ricerca della geologa cinese Li Xian-Hua, che lavora presso l’Istituto di geologia e geofisica (Igg) presso l’Accademia cinese delle scienze di Pechino, si concentrava sulle rocce che derivavano da magmi terrestri. 

Ma quando la navicella spaziale cinese Chang’è-5 le ha consegnato le prime rocce raccolte sulla Luna nel dicembre 2020, Li ha lasciato il suo solito lavoro per iniziare a studiare queste rocce aliene. 

Li è una delle tante e tanti scienziati planetari in Cina che hanno avuto la possibilità di studiare le rocce lunari per la prima volta. I campioni sono i primi riportati sulla Terra dopo le missioni Apollo della Nasa e la missione “Luna 16” dell’Unione sovietica più di 40 anni fa. 

Le ricerche su quest’ultime rocce stanno iniziando a produrre risultati entusiasmanti. Negli ultimi sei mesi sono già stati pubblicati una mezza dozzina di articoli sui campioni di Chang'e-5. E recentemente, alla Lunar And Planetary Science Conference a Houston, in Texas, una sessione sulle missioni lunari cinesi ha visto la presentazione dei risultati di circa una dozzina di ricerche.

Spiega Clive Neal, geoscienziato dell’Università di Notre Dame in Indiana: «Le rocce sono eccitanti perché rappresentano una finestra su un’èra molto diversa del magmatismo lunare rispetto a quelle raccolte in precedenza». La missione Chang'e-5 ha riportato a Terra 1,7 chilogrammi di rocce basaltiche (rocce simili, ma non uguali, a quelle emesse dall’Etna) prese da una vasta pianura lavica, nota come Oceanus Procellarum, nella regione settentrionale della Luna. 

Il luogo è stato scelto perché si ipotizzava che avrebbe potuto avere rocce vulcaniche più giovane rispetto alle regioni visitate dalle missioni Luna 16 e Apollo. La speranza era che un sito più giovane potesse dare maggiori informazioni geologiche di un’epoca in cui la Luna aveva iniziato a raffreddarsi, ma era ancora vulcanicamente attiva.

In altre parole si sperava di osservare le ultime colate laviche prodottesi sulla Luna. E così lo scorso luglio, la China National Space Administration ha consegnato i primi esemplari di Luna a numerosi scienziati di tutta la Cina. Sono stati distribuiti circa 17,5 grammi di polvere a grana fine e roccia a 31 progetti scientifici selezionati tra 85 proposte. 

Il 7 ottobre scorso, una squadra di scienziati ha riportato che le rocce basaltiche hanno un’età di 1,96 miliardi di anni. Meno di 2 settimane dopo, un altro gruppo, incluso Li, ha confermato quelle date, stimando che l’età fosse di 2 miliardi di anni. Ciò significa che la Luna era ancora vulcanicamente attiva quasi un miliardo di anni dopo rispetto all’età delle rocce riportate dalle missioni Apollo. 

Ma come mai il vulcanismo è andato avanti per così tanto tempo? Una delle principali, basata sulle osservazioni satellitari, suggeriva che gli elementi radioattivi come il potassio e il torio trovati nel mantello lunare avrebbero prodotto calore sufficiente per fondere le rocce ed alimentare il vulcanismo per così tanto tempo. 

Ma quando un altro gruppo dell’Igg ha esaminato i basalti lunari, ha stabilito che i livelli di questi elementi non potevano essere la fonte, perché non erano così abbondanti da permettere ciò. Un’altra possibilità era che il mantello contenesse abbastanza acqua per ridurre la temperatura alla quale i materiali si fondono e facilitano l’eruzione del magma. 

Ma Lin Yangting, uno scienziato planetario dell’Igg, ha scoperto, con i suoi colleghi, che le rocce lunari probabilmente provenivano da una fonte relativamente secca. E così la questione su quale fosse la fonte di calore del vulcanismo, lascia sconcertati gli scienziati. 

«Stiamo esplorando tutte le possibilità», afferma Ming Tang, geochimico dell’Università di Pechino, che ha ricevuto due minuscoli granelli di roccia basaltica che li sta analizzando per comprendere meglio la pressione e la temperatura in cui sono stati creati.

Caldo estremo ai Poli

A metà del mese di marzo 2022 due eventi hanno letteralmente sconvolto i Poli, soprattutto il Polo Sud. Si è assistito infatti, a temperature estreme che mai erano state registrate precedentemente.

Al Polo Sud infatti, sono state toccate temperature di 30-40 gradi centigradi superiori alla norma. E questo in prossimità della Stazione scientifica Concordia a oltre 3.000 metri di quota. Qui la temperatura ha raggiunto i -11,5 gradi: si tratta della temperatura più alta mai osservata in qualsiasi stagione.

Al Polo Nord invece, si è verificato un evento di caldo eccezionale alle Svalbard dove la temperatura a marzo ha raggiunto i 5,5°C al di sopra dello zero, valore estivo, e anche qui 18-20 gradi centigradi superiore alle medie.

Le temperature eccezionalmente alte hanno portato anche precipitazioni liquide, quindi pioggia anziché neve, un fatto del tutto eccezionale, precipitazioni che per via della durata e dell’aria calda hanno causato una fusione del pack di circa 100.000 chilometri quadrati (un terzo della superficie italiana) in poco meno di una settimana.

Spiega Giulio Betti dell’Istituto per la bioeconomia del Cnr (Cnr-Ibe) – Consorzio LaMMA: «Le cause di questi fenomeni in Antartide sono da ricercare in un flusso d’aria molto calda (per l’area in questione) che si è portata fin nel cuore del plateau antartico orientale  – la zona più fredda dell’Antartide – la quale è stata intrappolata all’interno di un’area di alta pressione. Anche al Polo Nord aria calda dal nord Atlantico si è riversata sul mare di Barents (determinando un’area di bassa pressione sulla Groenlandia), la quale è rimasta intrappolata a causa della presenza di un vastissimo anticiclone, che è lo stesso anticiclone che ha portato siccità a lungo sull’Europa e sull’Italia stessa».

È lecito chiedersi se c’è un ruolo dei cambiamenti climatici in questi eventi estremi. Ancora Betti: «Per quanto successo al Polo Sud il dubbio rimane, in quanto l’evento è stato unico nella presente storia climatica del continente.

Per quanto riguarda  l’Artico invece ci sono pochi dubbi che il riscaldamento climatico abbia la sua notevole importanza, in quanto questi fiumi d’aria calda sono sempre più frequenti al Polo Nord e sono sempre più aggressivi in termini di estensione e di intensità.

Essi, tra l’altro, si inseriscono perfettamente in un trend al rialzo delle temperature in tutto l’Artico e una riduzione estremamente evidente dell’estensione media della banchisa».

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