Un nuovo studio guidato dalla fisica Carrie Nugent dell’Olin College of Engineering – pubblicato su arXiv e presto disponibile sul Planetary Science Journal – confronta la probabilità di morte per impatto asteroidale con quella di altri eventi (perlopiù prevenibili) nella vita quotidiana. Ecco i dati
Partiamo da un dato di fatto: al momento l’unica persona colpita da un meteorite è stata una donna nel 1954, Ann Hodges, la quale divenne famosa, suo malgrado, quando un sasso dal cielo le cadde addosso mentre dormiva sul divano. Il frammento spaziale, proveniente probabilmente dall’asteroide 1685 Toro, attraversò il tetto della sua casa, rimbalzò su una radio e la colpì all’anca, lasciandole un grosso livido.
L’evento suscitò grande clamore mediatico e rimane ancora oggi una leggenda locale. Il meteorite, un condrite di circa 4,5 miliardi di anni, è esposto al Museo di Storia Naturale dell’Alabama. Curiosamente, la casa di Hodges si trovava di fronte al “Comet Drive-In Theater”, con un’insegna al neon raffigurante una cometa. Questo per dire quanto sia improbabile un evento del genere.
Lo studio
Ma facciamo un passo oltre… Molti di noi sanno che, circa 65 milioni di anni fa, un asteroide gigantesco spazzò via gran parte della vita sulla Terra. È un pensiero che fa venire un brivido, un timore latente che qualcosa di simile possa ripetersi. Ma quanto è realistico che un asteroide e dunque non un “sassolino” ci colpisca nel corso di una vita umana media? Un nuovo studio guidato dalla fisica Carrie Nugent dell’Olin College of Engineering – pubblicato su arXiv e presto disponibile sul Planetary Science Journal – getta luce su questa domanda, confrontando la probabilità di morte per impatto asteroidale con quella di altri eventi (perlopiù prevenibili) nella vita quotidiana.
Il team ha simulato le orbite di cinque milioni di oggetti vicini alla Terra definiti con la sigla NEO (Near-Earth Object - un oggetto spaziale, come un asteroide o una cometa, la cui orbita lo porta vicino alla Terra, potenzialmente a rischio di impatto), con diametri superiori ai 140 metri, utilizzando il modello NEOMOD2 e i dati JPL Horizons.
Le orbite sono state tracciate per determinare gli impatti sulla Terra nell’arco di 150 anni e da qui è stata stimata la probabilità di un impatto. Successivamente, questi dati sono stati confrontati con la probabilità di decesso individuale durante una vita media di 71 anni, per cause quali fulmini, attacchi di elefanti, avvelenamento da monossido di carbonio, crolli di buche di sabbia asciutta e perfino influenza o incidenti stradali.
I risultati sorprendenti
Ebbene secondo le simulazioni, un asteroide di almeno 140 metri ha, in media, la probabilità di colpire la Terra circa una volta ogni 11.000 anni. Si tratta di una stima statistica: non significa che l’evento avverrà con puntualità regolare, ma che questo è l’intervallo medio tra due impatti di quella scala nel corso della storia geologica. Ora scendiamo un po’ più nei dettagli. Stando allo studio un NEO di 140–200 metri che impattasse in mare potrebbe non causare vittime. Se invece, cadesse su un’area densamente popolata, un NEO di 180–200 metri potrebbe mettere a rischio fino a un milione di persone. Oggetti ancora più grandi hanno potenziali conseguenze regionali o globali. Ciò significa milioni e milioni di morti.
Statisticamente la probabilità di un impatto asteroidale è maggiore di quella di essere colpiti da un fulmine (e sono migliaia le persone colpite da un filmine ogni anno) o attaccati mortalmente da un coyote. L’asteroide è anche statisticamente più pericoloso della rabbia, una malattia rarissima nelle regioni sviluppate. Al contrario, influenze e incidenti stradali restano rischi molto più comuni nella vita quotidiana.
Gli autori intendono offrire una prospettiva chiara al pubblico e ai decisori politici, sottolineando l’importanza della difesa planetaria. Un impatto simile è l’unico disastro naturale che potremmo prevenire attivamente, con sufficiente anticipo. In questo contesto, si evidenzia il ruolo cruciale di missioni come la Dart della Nasa (Double Asteroid Redirection Test), che nel 2022 ha dimostrato la capacità tecnica di deviare un asteroide di circa 150 metri, modificandone l’orbita. Il costo di missioni di difesa – come la Dart – è equiparato a una sorta di “polizza assicurativa”: difficilmente a livello di alcune generazioni, si utilizzerà, ma vale la pena investirci per evitare una tragedia potenzialmente planetaria
Convivere nel profondo passato
Un recente ritrovamento nel sito paleoantropologico di Ledi-Geraru, nella regione dell’Afar (Etiopia), ha rivelato un ritratto evolutivo molto più complesso e affascinante di quanto si pensasse. Una squadra internazionale, coordinata dall’Arizona State University, ha portato alla luce 13 denti fossili risalenti a circa 2,6-2,8 milioni di anni fa. Tra questi, alcuni appartengono a esemplari del genere Homo, mentre altri indicano la presenza di un Australopithecus mai osservato prima — una forma che coesisteva nel tempo e nello spazio con i nostri antenati diretti.
Fino ad oggi, si riteneva che Australopithecus afarensis — la specie della celebre Lucy — fosse sparita dalla storia evolutiva intorno a 3 milioni di anni fa. Le nuove analisi, però, dimostrano che un diverso tipo di Australopithecus continuava a vivere accanto agli antenati del genere Homo fino a circa 2,6 milioni di anni ore sono. Questo coesistere smentisce ancora un volta il modello evolutivo lineare a scala unidirezionale, sostenendo invece l’ipotesi, ormai teoria, di una fitta ramificazione, o “albero cespuglioso”, della famiglia umana.
Il ritrovamento, pubblicato su Nature, include denti attribuiti a Homo con un’età compresa tra 2,78 e 2,59 milioni di anni e altri riconducibili al nuovo Australopithecus datati attorno a 2,63 milioni di anni. Tuttavia, alcuni esperti sollevano dubbi. Interpretano le differenze morfologiche come possibili variazioni intra-specie oppure forme evolutive di A. afarensis e ritengono che servano fossili più completi per una nuova classificazione.
Il sito di Ledi-Geraru è particolarmente rilevante per la sua stratigrafia geologica chiara e le abbondanti ceneri vulcaniche, ricche di cristalli di feldspato che permettono una datazione precisa con metodi argon-argon. Il metodo di datazione argon-argon (⁴⁰Ar/³⁹Ar) è una tecnica radiometrica che misura il rapporto tra isotopi di argon in minerali vulcanici per stabilirne l’età, spesso con grande precisione fino a milioni di anni indietro nel tempo. L’area intorno a 2,6-2,8 milioni di anni fa era costellata da fiumi, vegetazione rigogliosa e laghi variabili — un habitat molto diverso dalle attuali distese aride.
Anche senza un nome ufficiale per la nuova specie (se verrà classificata come tale), le caratteristiche dentali rilevate sono abbastanza distinte da escludere una semplice variante di specie già note (come A. afarensis o A. garhi). In parallelo, i denti di Homo confermano la remota presenza del nostro genere in quella regione e periodo.
Gli scienziati stanno ora analizzando l’isotopia dell’esmalto dentale per capire le diete e la possibile competizione tra queste specie. Resta aperta la grande domanda: condividevano le stesse risorse o vivevano in nicchie ecologiche diverse?
Simile alla Terra, ma senza atmosfera abitabile
Gli astronomi sono sempre più affascinati dal sistema TRAPPIST-1da quando venne scoperto, un gruppo di sette pianeti rocciosi delle dimensioni della Terra che orbitano attorno a una stella nana rossa a circa 40 anni luce da noi. Le stelle chiamate “nane rosse” sono stelle piccole e fredde rispetto al Sole, di colore rossastro, che ”bruciano” il suo carburante lentamente e possono vivere decine o centinaia di miliardi di anni, a differenza del Sole che dovrebbe avere una vita di circa 8-10 miliardi di anni.
Tra questi, il pianeta chiamato TRAPPIST-1 d (le lettere minuscole indicano l’ordine di scoperta dei pianeti) ha catturato particolare attenzione perché si trova nella cosiddetta “zona abitabile”, dove teoricamente potrebbe esistere acqua liquida. Tuttavia, un nuovo studio basato sui dati del telescopio spaziale James Webb rivela che TRAPPIST-1 d non possiede un’atmosfera simile a quella terrestre.
Lo strumento NIRSpec di Webb non ha rilevato tracce di acqua, metano o anidride carbonica, elementi chiave della nostra atmosfera. Secondo Caroline Piaulet-Ghorayeb, coordinatrice dello studio, diverse spiegazioni sono possibili: il pianeta potrebbe avere un’atmosfera molto sottile, simile a Marte, e dunque al momento assai difficile da rilevare anche utilizzando il Webb Telescope oppure nuvole spesse ad alta quota che ne nascondono la composizione, come su Venere. Non si può escludere nemmeno che si tratti di una oggetto completamente spoglio, un pianeta dunque, del tutto simile a Mercurio.
TRAPPIST-1, ossia la stella madre, emette frequenti brillamenti di radiazioni ad alta energia, in grado di spazzare via atmosfere planetarie, soprattutto quelle più vicine. TRAPPIST-1 d, che compie un’orbita completa attorno alla sua stella in soli quattro giorni terrestri, subisce questo rischio in misura particolarmente intensa. Nonostante questa delusione, gli scienziati non hanno perso la speranza. I pianeti più esterni del sistema — TRAPPIST-1 e, f, g e h — sono più lontani dalla stella e potrebbero aver conservato atmosfere più consistenti.
Le osservazioni con Webb continueranno per cercare eventuali tracce di acqua e altri elementi vitali. Come sottolinea Björn Benneke, coautore dello studio, “la nostra indagine è solo all’inizio. Grazie a Webb possiamo finalmente esplorare le atmosfere dei pianeti di piccole dimensioni e capire quali mondi possono mantenerle e quali no”. Ryan MacDonald aggiunge: “TRAPPIST-1 d potrebbe essere solo una roccia sterile illuminata da una stella crudele, ma i pianeti esterni potrebbero ancora nascondere atmosfere dense. Ciò che stiamo imparando comunque, rende la Terra ancora più unica nell’Universo”.
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