«Ma noi cosa possiamo fare?». Qualche mese fa ero in una scuola superiore a presentare il mio libro: in breve tempo la discussione, spinta dalle domande dei ragazzi, si spostò sui temi del cambiamento climatico. A un certo punto una studentessa mi chiese: «Ma noi cosa possiamo fare?».

L’intensità delle sue parole lasciava emergere un doloroso garbuglio di frustrazione, rabbia, paura: fu come se mi avesse sbattuto in faccia qualcosa che magari sapevo, o potevo immaginare, a livello intellettuale (del resto cosa ci dicono tutte le settimane le manifestazioni in piazza dei Fridays for Future?) ma che in quel momento avevo davanti, per così dire, “in persona”.

E cioè lo stress psicologico, cognitivo e emotivo a cui è sottoposta una generazione che viene bombardata quotidianamente dalle notizie di una catastrofe ambientale verso cui siamo destinati (anzi che stiamo già pienamente vivendo) e a cui allo stesso tempo si chiede di impedire la medesima catastrofe attraverso azioni individuali, gesti e consumi critici, green, consapevoli – dal pesce non d’allevamento, alla maglietta a impatto zero, e così via fino a livelli di complicazione crescente. Perché ci caricate della responsabilità di salvare il mondo e allo stesso tempo ci dite che non c’è niente che possiamo fare? Un double bind, un doppio vincolo autocontraddittorio che non può che causare uno stato di sofferenza e, alla lunga, diventare un’esperienza traumatica.

Una medusa

Naturalmente non avevo risposte alla domanda della ragazza, non lo so cosa possiamo fare. Gli adulti sono esposti al trauma climatico tanto quanto i ragazzi, sono solo “più bravi” a ovattarne gli effetti dietro i privilegi dell’indifferenza e dell’ignoranza, quando non del tornaconto immediato. Oltre al fatto che comunque hanno meno anni davanti (stavo per scrivere: da scontare) su una Terra sempre più inabitabile.

Ecco, sarà perché sono diventato padre da poco – e quindi la mia responsabilità sul futuro si è estesa oltre ai quarant’anni di vita media che mi aspettano ancora, e arrivano, aggiungendo l’arco di vita della prole, teoricamente almeno fino al 2100 – ma la domanda di quella ragazza continua a infestarmi, a risuonarmi nelle ossa come un rumore di fondo.

Un rumore, un disagio, che in questi giorni è entrato in risonanza con uno dei libri più eccitanti che abbia letto quest’anno. Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi curano da qualche anno una newsletter molto bella, Medusa, da cui ora è gemmato un libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) (Nero Editions), che ne riprende i temi e la voce, ma estendendola, dandole unità e, mi sento di dire, spessore letterario.

Ci sono tanti libri sul cambiamento climatico, libri scientifici e divulgativi, spesso molto ben fatti e informativi: De Giuli e Porcelluzzi però non scrivono un libro strettamente scientifico – anche se ci sono i dati, le analisi, gli approfondimenti – quanto un libro profondamente umanistico su cosa significa vivere in questi tempi devastati, iperinformativi, atomizzati, stressanti. Neanche in Medusa ci sono le risposte da dare a quella studentessa: c’è però lo stesso disagio, le stesse domande, ma con in più la capacità di metterli in prospettiva, decostruirli, non farsene soverchiare.

Dispacci dal fronte

Non a caso uno degli oggetti che torna più spesso in Medusa è il linguaggio, le parole e le narrazioni che usiamo per dare forma all’esperienza. Iniziando dal prendere atto che le parole d’ordine più diffuse, il richiamo alla catastrofe, all’apocalisse, per quanto centrate, non hanno più alcuna efficacia: «Il catastrofismo non parla a nessuno, e non declina le differenze. Stanca e deprime, ipersemplifica, fallisce. Lascia la voce a due soluzioni inadeguate: quella moralista (insufficiente), e quella tecnocratica (ipocrita).

Bisogna tornare all’essere umano, educarci, cambiare idea se necessario, allargarla». Tornare all’umano, nell’ipotesi di De Giuli e Porcelluzzi, vuol dire mettere insieme l’aumento di CO2 nell’atmosfera e i romanzi di Bianciardi, con la loro critica allo sviluppo del Dopoguerra, attraversare Milano durante il lockdown e guardarla con gli occhi nuovi di esploratore della natura, seguire i fili che uniscono la sesta estinzione di massa e l’antropologia di Ernesto De Martino che raccontava la fine del mondo nel sud atavico come una «crisi della presenza», crisi cioè della capacità di mettere in relazione la morte individuale e la comunità: e del resto cosa abbiamo vissuto in questa pandemia se non un’incapacità di fare i conti con la morte, continuando a non vederla, a tenerla fuori scena, sacrificando gli anziani e i più fragili in nome di riprese, riaperture, produttività? E a cosa porta questa rimozione se non a un trauma che chiamiamo fine del mondo?

«Le premesse di questo collasso sono chiare, fatte di scienza, come sono fatte di scienza le premesse di questa pandemia globale, e delle prossime; come specie, ci abituiamo ad assorbire le angosce nel fatalismo, nonostante questi incidenti massacranti tendano a seguire catene logiche strette da cause ed effetti; catene tenute in mano da organizzazioni articolate secondo logiche che deresponsabilizzano gli esseri umani che le incorporano, idee d’impresa che determinano le politiche industriali in ambiti come l’estrazione mineraria e petrolifera, l’agrotecnica delle monocolture, l’allevamento intensivo, e la lista continua.

È come se vivessimo intrappolati tra il sentimento di un collasso ormai in corso e la paura di riconoscerlo appieno. Eppure, per quanto tempo possiamo rassicurarci nel ripetere l’orrido, aiutandoci con formule come “le catastrofi naturali stanno diventando la norma”? Quanto ci mette l’assurdo, per diventare la norma?».

Mi sembra che, come due astronauti ballardiani, De Giuli e Porcelluzzi si lancino nell’esplorazione dello spazio interno, quello interiore dell’essere umano di oggi che si trova a confrontarsi con l’apocalisse ecologica. Sono dispacci dalla linea del fronte del trauma, la linea in cui il “mondo fuori” (fatto di estinzioni di massa, virus globali, supply-chain interrotte, ma anche di una bellezza oscura e impenetrabile, di nuove forme di vita e nuovi modi di viverle) impatta sull’individuo. Per questo ho parlato di spessore letterario: raccontare questo spazio, la sottile frontiera in cui il mondo (in altri tempi si sarebbe detto la storia) preme sull’individuo è sempre stato il compito del romanzo.

Ma il romanzo tradizionale, come ha detto Amitav Ghosh nel giustamente molto citato La grande cecità (Neri Pozza), non riesce ancora a fare i conti con la complessità di un mondo al collasso, non riesce a vederlo, è letteralmente al di fuori della sua scala. Per riuscirci il romanzo cambierà, l’ha sempre fatto, lo sta facendo anche ora: è in un tempo di muta, sta cambiando pelle, e non è impossibile allora trovare qualche traccia di questa metamorfosi anche in un libro come Medusa.

La fine della Natura

Il “mondo fuori” i filosofi del romanticismo tedesco lo chiamavano sublime: il sentimento, un misto di terrore e fascinazione, che nasce dalla dismisura che c’è tra l’umano e la potenza della natura, l’infinità della matematica, l’incommensurabile dell’universo. Il più contemporaneo dei filosofi contemporanei, Timothy Morton, invece, lo definisce iperoggetto: sono quei fenomeni troppo grandi, troppo esorbitanti la dimensione umana per essere compresi nella loro totalità. «Un iperoggetto può essere un buco nero. Un iperoggetto può essere il centro petrolifero nell’area di Lago Agrio, in Ecuador, o la riserva di Everglades in Florida.

Un iperoggetto può essere la biosfera o il sistema solare. Un iperoggetto può essere la somma complessiva di tutto il materiale nucleare presente sulla Terra» (Iperoggetti, Nero Editions, traduzione di Vincenzo Santarcangelo). E l’iperoggetto per eccellenza è proprio il surriscaldamento globale: posso esperirne manifestazioni particolari (un’inondazione, una bomba d’acqua, lo scioglimento di un ghiacciaio), ma nella sua totalità vive in una dimensione spazio-temporale troppo grande, planetaria appunto, per essere visto e capito nella sua interezza dal singolo cervello.

Da qui anche la nostra incapacità di reagire con la necessaria radicalità: perché non riusciamo né a pensarlo né a “sentirlo” davvero. Ora in Ecologia oscura (Luiss, traduzione di Vincenzo Santarcangelo), Morton tenta, per così dire, di ripensare l’ecologia nell’epoca degli iperoggetti. Il primo passo è prendere atto di un’altra crisi, quella dell’ambientalismo e dell’ecologismo iniziata negli Sessanta e ormai giunta a un punto morto, a causa, secondo Morton, proprio… della Natura (con la maiuscola).

Soltanto liberandosi dell’idea di Natura, immaginata come Altro assoluto, come fonte di cura per l’alienazione della società moderna, come rifugio puro e incontaminato verso cui tendere, originaria età dell’oro prima della caduta, ecco, solo liberandoci di tutte queste idee potremo davvero superare l’impasse in cui siamo bloccati.

Del resto concepire la Natura come luogo riparato, selvaggio, trascendentale, non è molto diverso dall’immaginarla come merce pura, come risorsa, immagine speculare della proprietà privata. Nella lettura di Morton, la coscienza ecologica è qualcosa di perturbante e in un certo senso estraniante: perché ci porta a capire che l’asteroide che si sta abbattendo sul pianeta siamo noi ma non da oggi, o dalla rivoluzione industriale: lo siamo sempre stati, sin dall’inizio della civiltà.

Dal momento, cioè, in cui durante la rivoluzione agricola del Neolitico abbiamo iniziato a introiettare una frattura, una divisione tra l’umano e il resto dell’ambiente, tra l’uomo agricoltore e il resto del pianeta. È a quel punto che è sorta la Natura come alterità, è lì che abbiamo iniziato a tracciare dei confini, delle differenze, tra il puro e l’impuro, tra l’umano e il naturale, tra ciò che poteva essere identificato e ciò che è fluttuante, tra ciò che può essere accumulato, manipolato, sfruttato e ciò che si sottrae a queste categorizzazioni, l’ibrido, l’inclassificabile, l’invisibile.

Pensare come una foresta

«Se il pensiero si costituisce ecologicamente, le antiche gerarchie crollano implacabilmente», scrive Emanuele Coccia nell’introduzione a Come pensano le foreste (nottetempo), il libro dell’antropologo canadese Eduardo Kohn che pur essendo solo del 2013 ha già assunto la statura di piccolo classico.

Classico di cosa? Di un certo tipo di antropologia che «piuttosto che porsi alle frontiere che separano i popoli e le culture per mostrare la loro porosità, si è posta alla frontiera – molto più ampia, frastagliata, discontinua – che separa ciò che è umano da ciò che non lo è», e poco importa che si tratti di oggetti inanimati o di forme di vita genealogicamente lontane da Homo sapiens.

Per Kohn, forte dell’osservazione ventennale dell’etnia Runa dell’Amazzonia ecuadoriana, ogni essere vivente è immerso in una rete che lo unisce a tutti gli altri viventi, senza interruzioni: una rete resa possibile dai segni, che nell’umano sono simbolici e arrivano al linguaggio, mentre per gli altri viventi sono più prossimi agli oggetti che indicano, sono indici e icone, ma non per questo sono meno loquaci.

«La significanza, scrive Kohn, non è un territorio esclusivo degli esseri umani perché non siamo i soli a interpretare i segni. Il fatto che altri generi di esseri usino i segni è un esempio dei modi in cui la rappresentazione esiste nel mondo al di là delle menti umane e dei loro sistemi di significato». Se ogni vivente pensa, perché fa uso di segni e quindi ha un’immagine del sé nell’ambiente che lo circonda, allora non c’è più alcuna eccezionalità nell’umano, nessuna cartesiana divisione tra res cogitans, ciò che pensa (e cioè il soggetto umano), e res extensa, tutto il resto che semplicemente esiste.

Antropologia non-umana

A questa antropologia che attraversa le frontiere con il non-umano, appartiene anche Anna Lowenhaupt Tsing, autrice di un altro libro per questa piccola “biblioteca del cambiamento climatico”: ne Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (Keller), Anna Lowenhaupt Tsing racconta del matsutake, un fungo commestibile ritenuto prelibato e piuttosto costoso, anche perché non può essere coltivato ma soltanto raccolto nei luoghi in cui cresce in simbiosi con un’altra specie vegetale, nel caso specifico i pini.

Cresce in Giappone, Corea, Bhutan, Laos, Estonia, Polonia, nei paesi scandinavi e sulla costa pacifica di Canada e Stati Uniti. Ma la particolarità del matsutake è che cresce solo in foreste alterate dall’uomo: zone di sfruttamento industriale intensivo e successivamente abbandonate, foreste «perturbate», come scrive la Tsing, dall’azione dell’uomo, in mezzo a rovine, villaggi e strutture abbandonate. Anche nei dintorni post nucleari di Hiroshima e di Fukushima.

Paesaggi quasi da fantasia post apocalittica in cui si aggirano i raccoglitori di matsutake, spesso outsider, persone digerite e risputate dallo sfruttamento capitalista tanto quanto gli ecosistemi in cui cresce il fungo, e che hanno legato la loro sopravvivenza precaria a questi ambienti che sembrano prove generali di vita dopo la fine.

Questo mondo che cambia, che è già cambiato, è lo sfondo su cui si muove Fabio Deotto in L’altro mondo (Bompiani), una serie di ricchi reportage dai luoghi in cui il cambiamento climatico, o meglio i suoi effetti, sono più visibili: coinvolgente come una serie di Netflix, Deotto accompagna il lettore nei suoi viaggi dalle Maldive alla Lapponia, dalla Louisiana alla Venezia, riportando la prospettiva sulla mutazione a una scala molto umana, quasi quotidiana, ma forse anche per questo ancora meno eludibile.

Equazioni e gesti d’amore

Ma allora noi cosa possiamo fare? Tornano a pungolarmi le parole di quella studentessa. Questi libri “catastrofisti” invitano in realtà a pensare fuori dalla catastrofe. Mostrano quanto l’apocalisse, il costante richiamo a essa, è un modo per gestire l’ansia sociale ma anche per nascondere le responsabilità concrete di soggetti con nome e cognome, o quantomeno con ragione sociale.

Scrivono ancora De Giuli e Porcelluzzi in Medusa: «Tendiamo a parlare di catastrofe ambientale come se fosse un’emergenza creatasi qui e ora, un’eccezione all’interno del sistema produttivo in cui siamo inseriti, e non un suo epifenomeno: etichettare come “apocalittici” i problemi dei nostri tempi oscura la loro dimensione sociopolitica ed economica». Nemmeno di fronte alla pandemia, questa prova tecnica di apocalisse in scala ridotta, la narrazione collettiva è stata capace di mettere in discussione i rapporti di forza che regolano il mondo dei prodotti e dei servizi. Tutto sembra passato invano. Nemmeno la quasi sicurezza di una prossima pandemia riesce spingere verso cambiamenti strutturali, neanche a livello individuale.

Ma allora noi cosa possiamo fare? Continuo a non saperlo, ma una piccola, flebile luce di speranza mi viene da un pensiero nuovo, una fantasia, forse niente più che una fantasia, nata anche dalla lettura di questi libri: che, nel passaggio attraverso queste strettoie epocali, magari nascerà un’intelligenza nuova, capace di pensare la complessità, di mescolare i saperi, di approfondire in verticale e estendersi in orizzontale, di connettere un fungo e una poesia, un’equazione e un gesto d’amore.

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