Nella città nel sud-est del paese impazzano le proteste. Ad accenderle il ricovero in breve tempo di 122 persone per intossicazione da fumi tossici. Nel territorio dal 1972 una fabbrica trasforma le sostanze che estrae in acido fosforico e fertilizzanti chimici. Con gravi danni all’ambiente e alla salute
«In ogni famiglia di Gabes c’è almeno un malato di cancro», racconta un abitante di questa città tunisina sulla costa, mentre marcia durante lo sciopero che ha paralizzato negozi, uffici e treni. Pesci scomparsi, campi inquinati, famiglie distrutte: è questo che da oltre cinquant’anni spinge i cittadini di Gabes, nel sud-est della Tunisia, a scendere in strada per reclamare il diritto alla salute. Quella dei giorni scorsi è stata una delle mobilitazioni più grandi di sempre.
Le proteste sono esplose l’11 ottobre, dopo che oltre 120 persone sono state ricoverate per difficoltà respiratorie, dolori alle gambe, sensazioni di intorpidimento e perdita di mobilità. Si tratta dell’ennesimo picco in una crisi sanitaria che dura da decenni, iniziata nel 1972 con l’apertura dello stabilimento del Tunisian chemical group (Cgt), dedicato alla lavorazione del fosfato. Le autorità avevano promesso di chiudere gradualmente il sito entro il 2017, ma a oggi quell’impegno non è mai stato mantenuto.
Oltre 120mila persone hanno sfilato per le vie della città, gridando slogan come «Gabès vuole vivere» e «Smantellate gli impianti inquinanti». Una città che molti ormai definiscono “la piccola Chernobyl del Mediterraneo”.
L’impatto del fosfato
A Gabes si produce fosfato, ingrediente principale dei fertilizzanti usati nell’agricoltura intensiva. Quelli tunisini vengono esportati in Europa, soprattutto in Italia, Spagna, Francia e Irlanda.
Il processo di produzione consiste nell’estrarre rocce fosfatiche da altre aree del paese e trattarle con acido solforico per ricavare fosfato, base dei fertilizzanti. I problemi nascono dai gas tossici emessi durante la lavorazione, come fluoro e ammoniaca, sostanze che studi scientifici collegano a malattie gravi come il cancro. Uno studio del 2018 della Commissione europea ha confermato che il 95% dell’inquinamento atmosferico di Gabes è riconducibile proprio al Gruppo chimico tunisino.
Un ulteriore pericolo proviene dagli scarichi di fosfogesso, un sottoprodotto contenente metalli pesanti come cadmio, piombo e arsenico. Quando si deposita a terra e si secca, diventa polvere: molti bambini di Gabes nascono già con l’asma. Ogni anno, circa 5 milioni di tonnellate di fosfogesso vengono riversate anche in mare. La vita marina è quasi scomparsa: si è perso il 93% della biodiversità, e i pescatori non hanno più un lavoro. Come chi lavorava al grande suq (mercato all’aperto): non ci sono più turisti nella città prima protagonista di libri come “Gabès, paradiso del mondo”.
Come nel caso italiano dell’Ilva, la Cgt rappresenta allo stesso tempo una fonte di inquinamento e di occupazione. L’azienda non si limita a produrre fosfato: gestisce trasporti e rifiuti, rendendo gran parte della popolazione dipendente da essa anche dal punto di vista economico. Soprattutto perché gli altri settori come l’agricoltura sono morti a causa della fabbrica. Molti villaggi agricoli sono stati espropriati per costruire pozzi per estrarre l’acqua utile a purificare il fosfato e agli scavi di nuove miniere, e le persone si sono trovate senza terra, né lavoro, come emerge da un’inchiesta sul campo pubblicata su Irpi media.
Questo tipo di produzione è vietata in Europa, ma è proprio lì che finiscono i prodotti. Il fosfato di Gabes viene esportato perché esiste una forte domanda: è utilizzato soprattutto nelle monocolture di cereali. E dopo la riduzione dei sussidi della Politica agricola comune (PAC), è diventato difficile trovare frutta e verdura che non siano cresciute con l’aiuto dei fertilizzanti tunisini.
La risposta delle istituzioni
Durante le ultime manifestazioni, la polizia ha risposto lanciando gas lacrimogeni contro i manifestanti, e diverse persone sono state arrestate. Le proteste diurne si sono svolte come marce lente, a cui hanno partecipato bambini, anziani e giovani. Mentre nella notte alcuni gruppi hanno ritenuto di alzare il livello del conflitto puntando a una filiale della Cgt, ma sono stati bloccati dalla polizia. La sede è rimasta intatta, ma sono state portate avanti azioni come il bruciare pneumatici e il blocco delle strade.
Secondo Khayreddine Debaya, coordinatore del gruppo locale Stop pollution, «oltre 100 persone sono state arrestate» solo nella mattinata di sabato. Sui social è iniziato a circolare l’hashtag che parla di “ondata di arresti”.
Dalla politica arrivano parole che cercano di rassicurare, ma i cittadini vogliono i fatti. Il presidente Kais Saied ha condannato con forza la situazione di Gabes, accusando le precedenti amministrazioni di aver compiuto un «assassinio ambientale». Allo stesso tempo, però, ha definito l’industria del fosfato «un pilastro dell’economia nazionale» - rappresenta infatti circa il 4% del Pil tunisino - e ha annunciato l’intenzione di quadruplicare la produzione entro il 2030, passando da meno di 3 milioni a 14 milioni di tonnellate annue.
Durante la rivoluzione del 2011 erano stati stanziati fondi internazionali per spostare l’industria nell’entroterra e ricostruirla con tecnologie moderne. Resta da capire se, per gli abitanti tunisini, sarà necessaria un’altra rivoluzione per ottenere finalmente quelle promesse mai mantenute.
© Riproduzione riservata



