La plastica è uno dei materiali in più rapida crescita e la produzione è in procinto di raddoppiare, fino a superare il miliardo di tonnellate all’anno entro il 2050.

Con ciò, aumenterà l’inquinamento. A marzo, l’Assemblea delle Nazioni unite per l’ambiente ha preso la storica decisione di redarre un trattato giuridicamente vincolante che consideri l’intero ciclo della plastica, dalla produzione fino all’imballaggio, ai prodotti e ai modelli di business. Il trattato dovrebbe essere finalizzato entro la fine del 2024.

Tra oggi e allora, i negoziatori avranno l’arduo compito di ideare e concordare regole e strategie da applicare. Nature, una delle più importanti riviste scientifiche, ha esplorato tre questioni chiave e come il trattato potrebbe affrontarle.

Le questioni

PRODUCTION - 31 October 2022, Senegal, St. Louis: Plastic waste washed up by the sea lies on the beach of the coastal city of St. Louis. (to dpa "Dangerous proximity: The "Venice of Africa" fights against flooding") Photo by: Lucia Wei'/picture-alliance/dpa/AP Images

La prima è quella dei dati. La plastica rappresenta l’85 per cento di tutti i rifiuti marini. Il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) prevede che la quantità di plastica negli oceani triplicherà entro il 2040, aggiungendo da 23 a 37 milioni di tonnellate di rifiuti in più ogni anno. «La stragrande maggioranza dei rifiuti di plastica mal gestiti che hanno origine sulla terraferma, alla fine finisce nei fiumi e viene scaricata negli oceani», afferma Steve Fletcher, che studia politica ed economia oceanica all’università di Portsmouth, nel Regno Unito, e lavora con l’Unep sulle questioni relative al problema. Il costo dell’inquinamento da plastica per la società, compresi il risanamento ambientale e il degrado dell’ecosistema, supera i 100 miliardi di dollari all’anno, secondo la filantropica Minderoo Foundation di Perth, in Australia. 

Secondo Linda Godfrey, scienziata presso il Consiglio per la ricerca scientifica e industriale a Pretoria, in Sudafrica, i negoziatori del trattato dovranno affrontare opinioni contrastanti: molte organizzazioni non governative vogliono vietare la plastica monouso; l’industria della plastica, invece, afferma che l’inquinamento può essere risolto migliorando la raccolta dei rifiuti e le industrie della gestione dei rifiuti e del riciclaggio spingono per un maggiore riciclaggio. 

C’è poi il problema della raccolta differenziata. Attualmente solo il 9 per cento dei rifiuti di plastica viene riciclato, anche perché questo tipo di rifiuti ha poco valore. Gli scienziati affermano che se valesse di più, è certo che verrebbe riutilizzata una maggiore quantità plastica, un concetto chiamato economia circolare. Per far partire un’economia circolare per la plastica, il miliardario minerario e filantropo australiano Andrew Forrest sostiene che i paesi dovrebbero concordare, come parte del trattato, di imporre un sovrapprezzo sulla produzione dei polimeri. Questo denaro potrebbe essere utilizzato per finanziare il riciclaggio.

La terza questione è quella delle ricadute sanitarie. In tutto il mondo, ma soprattutto in Asia, i rifiuti di plastica vengono bruciati. Ciò riduce il volume dei rifiuti e impedisce che diventino terreno fertile per batteri, virus e zanzare. 

«Ma bruciare plastica è una delle principali cause d’inquinamento atmosferico», afferma Cressida Bowyer, biologa dell’università di Portsmouth. Circa 4,2 milioni di persone sono morte a causa dell’inquinamento atmosferico nel 2016, con il 91 per cento di questi decessi nei paesi a basso e medio reddito. Le microplastiche vengono inalate e consumate attraverso cibo e acqua. È stato anche dimostrato che le materie plastiche di dimensioni più piccole, chiamate nanoplastiche, causano danni e infiammazioni alla pelle e alle cellule polmonari. 

La plastica contiene anche additivi che sono collegati all’interruzione del sistema endocrino e ad anomalie riproduttive. La soluzione, secondo Sarah Dunlop, della Minderoo Foundation sarebbe quella di chiedere a chi produce plastica di eliminare gradualmente queste sostanze. 

Il sapiens più antico è spagnolo

©Mark Airs

Per oltre un secolo si è creduto che la più antica mandibola umana fossilizzata scoperta in Spagna, fosse appartenuta ad un Neanderthal. Ma ora si sa che ci si è sbagliati e la scoperta ha portato ad una novità di grande interesse.

Quel fossile infatti, potrebbe essere il primo ritrovamento di Homo sapiens mai scoperto in Europa. Gli archeologi hanno trovato la mascella fossile nel 1887, vicino a Banyoles in Spagna. Nel secolo scorso è stato oggetto di numerose ricerche che portarono a concludere che, poiché il fossile risalirebbe ad un periodo compreso tra 45mila e 65mila anni fa quando i Neanderthal erano in Europa, esso appartenesse a quella specie.

Recenti studi hanno utilizzato tecniche virtuali che allora non esistevano, come la scansione tomografica del fossile che ha permesso di ricostruire visivamente i frammenti mancanti e ricostruire un modello tridimensionale per lo studio computerizzato.

I Neanderthal, i nostri cugini evolutivi più vicini, e la nostra stessa specie, Homo sapiens, sono stati confrontati con la mascella di Banyoles. In particolare i ricercatori hanno utilizzato un metodo noto come “morfometria geometrica tridimensionale”, che esamina i dettagli geometrici della forma dell’osso. 

Ciò rende possibile confrontare direttamente la forma generale della mascella di Banyoles, con quella dei Neanderthal e dei sapiens. I risultati sono risultati inaspettati. La mascella oggetto di studio non mostrava in alcun modo tratti Neanderthaliani riconoscibili. La ricerca ha messo in luce caratteristiche presenti in specie umane precedenti al sapiens, ma complessivamente gli attributi della mascella sembrano adattarsi meglio all’Homo sapiens. Il dubbio più forte che frena i paleontologi nell’affermare che si tratti di un sapiens sta nel fatto che la mascella non possiede il mento, una delle caratteristiche più distintive per identificare un Homo sapiens.

Ma poiché la mascella manca di qualsiasi caratteristica distintiva dei Neanderthal, i ricercatori hanno respinto anche l’ipotesi che fosse un ibrido di H. sapiens e Neanderthal. Il prossimo lavoro sarà quello di identificare il Dna del reperto e in tal caso si potrà arrivare a definire la specie con assoluta certezza.

Marte è più attivo di quanto si pensasse

(NASA/JPL-Caltech via AP, File)

Sulla Terra, le placche tettoniche in movimento rimescolano la superficie del pianeta (crosta e mantello superiore) e danno vita ad un interno dinamico.

Poiché sulla superficie di Marte i processi della tettonica, come la formazione di catene montuose, non si vedono ha portato molti planetologi a considerarlo un pianeta morto, dove negli ultimi tre miliardi di anni non è successo quasi nulla. Ma ora in uno studio pubblicato su Nature Astronomy, scienziati dell’università dell’Arizona sostengono che le attuali opinioni sull’evoluzione geodinamica marziana non sono poi così corrette.

E lo fanno con un rapporto sulla scoperta di un pennacchio di mantello attivo che spinge la superficie verso l’alto e provoca terremoti ed eruzioni vulcaniche. Va detto che anche sulla Terra esistono pennacchi che arrivano dal mantello profondo, i quali danno origine ai “punti caldi” del nostro pianeta. Ne sono un esempio le isole Hawaii il cui magma arriverebbe da quasi 2500 chilometri di profondità.

Spiega Adrien Broquet, dell’Arizona Lunar and Planetary Laboratory: «Abbiamo una forte evidenza che i pennacchi del mantello siano attivi sulla Terra e su Venere, ma finora non sembravano esserci su un mondo piccolo e apparentemente freddo come Marte», ha detto Andrews-Hanna. «L’opinione degli scienziati voleva che il pianeta fosse stato molto attivo tre o quattro miliardi di anni fa, ma che oggi fosse sostanzialmente morto».

«Un’enorme attività vulcanica all’inizio della storia del pianeta ha costruito i vulcani più alti del sistema solare», ha aggiunto Broquet, «e ha ricoperto la maggior parte dell’emisfero settentrionale di depositi vulcanici. Quella poca attività che si è verificata nella storia recente viene tipicamente attribuita a processi secondari su un pianeta in raffreddamento».

Ma i ricercatori della University of Arizona sono stati attratti da una attività vulcanica insolita in una regione di Marte chiamata Elysium Planitia, una pianura all’interno delle grandi aree pianeggianti vicino all’equatore. 

A differenza di altre regioni vulcaniche, che non hanno visto una grande attività per miliardi di anni, Elysium Planitia ha visto grandi eruzioni negli ultimi 200 milioni di anni. «Il lavoro precedente del nostro gruppo ha trovato prove in Elysium Planitia della più giovane eruzione vulcanica conosciuta su Marte», ha detto Andrews-Hanna, «tant’è che ha creato una piccola esplosione di ceneri vulcaniche anche solo 53mila anni fa, che in tempi geologici è essenzialmente ieri».

Il vulcanismo a Elysium Planitia ha origine dal Cerberus Fossae, un insieme di giovani fessure che si estendono per oltre 1300 chilometri attraverso la superficie marziana. Recentemente, il gruppo di lavoro che studia i dati del lander InSight della Nasa ha scoperto che quasi tutti i terremoti marziani provengono da quella regione. 

Sebbene questa giovane attività vulcanica e tettonica fosse stata documentata, cosa vi era sotto quell’area era sconosciuto.

Sulla Terra, il vulcanismo e i terremoti tendono ad essere associati a pennacchi del mantello o alla tettonica a placche. «Sappiamo che Marte non ha una tettonica a placche, quindi abbiamo cercato di capire se l’attività che vediamo nella regione di Cerberus Fossae fosse il risultato di un pennacchio di mantello», ha detto Broquet.

I pennacchi del mantello, che possono essere immaginati come bolle calde di cera che si alzano nel mantello di un pianeta verso la superficie, spingono al di sotto di quest’ultima, sollevando e dilatando la crosta. Quando riesce a spaccarla si verificano eruzioni di basalti alluvionali che creano vaste pianure vulcaniche. Quando il team ha studiato le caratteristiche di Elysium Planitia, ha trovato prove di questa sequenza di eventi su. 

La superficie è stata sollevata di oltre 1500 metri, rendendola una delle regioni più alte delle vaste pianure settentrionali di Marte. Le analisi delle sottili variazioni nel campo gravitazionale hanno indicato che questo sollevamento è supportato dal profondo del pianeta, coerentemente con la presenza di un pennacchio di mantello.

Infine, quando i ricercatori hanno applicato un modello tettonico all’area, hanno scoperto che la presenza di un pennacchio gigante, largo 2.500 chilometri, era l’unico modo per spiegare l’estensione responsabile della formazione del Cerberus Fossae.

«In termini di ciò che ti aspetti di vedere con un pennacchio di mantello attivo, Elysium Planitia dimostra di avere tutte le caratteristiche necessarie» ha detto Broquet, aggiungendo che la scoperta rappresenta una sfida ai modelli utilizzati dagli scienziati planetari per studiare l’evoluzione termica dei pianeti. 

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