Circa 52 milioni di km quadrati di superficie terrestre sono zone aride, aree definite come ambienti in cui la quantità totale di precipitazioni è bilanciata dall’evaporazione dalla superficie e dalla naturale traspirazione delle piante. Il “giusto equilibrio” tra precipitazioni ed evaporazione dell’acqua è fondamentale per la produttività del suolo, un equilibrio che il cambiamento climatico sta costantemente modificando, con conseguenze drammatiche in termini di vivibilità e disponibilità di cibo in molte aree del globo.

La desertificazione accelera

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Secondo il rapporto del 2019 dell’Intergovernmental panel on climate change, al 2015, circa 500 milioni di persone vivevano in aree che hanno subito processi di desertificazione tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. Le proiezioni prevedono un peggioramento di questa situazione nei decenni futuri poiché si stima che la popolazione vulnerabile al degrado dell’habitat, inclusa la desertificazione, aumenterà di ulteriori 250 milioni di persone entro il 2050, a seconda dello scenario climatico globale, con l’Africa che dovrebbe pagare il prezzo più alto. Nonostante questi effetti previsti per i decenni futuri, c’è poca conoscenza degli effetti economici della desertificazione, definita come degrado del suolo in zone aride, semi-aride e secche subumide risultante da molti fattori, comprese le variazioni climatiche e le attività umane non consone con l’ambiente.

Una ricerca dell’università Bicocca di Milano ha studiato le implicazioni economiche e sociali derivanti da fenomeni di preoccupante aumento dell’aridità dei suoli. La desertificazione, infatti, peggiora le condizioni di vita degli abitanti attraverso una cronica penuria d’acqua e di cibo che, per la parte di popolazione che non ha possibilità di migrare altrove, si traduce in un deterioramento di una serie di indicatori di benessere.

Le stime indicano una riduzione del reddito dovuto alla desertificazione pari al 12 per cento per l’Africa nel complesso sul periodo 1990-2015, con costi, proiettati al 2080 pari al 16 per cento del Pil, con effetti nettamente più elevati non solo nella zona sub-sahariana, ma anche nella parte settentrionale del continente. L’area asiatica, invece, sembra soffrire meno per lo stesso fenomeno, con la sola eccezione delle zone centrali ed interne di Russia, Cina e Mongolia.

Il deterioramento della produttività dei suoli sembra avere un impatto negativo e significativo sulla salute dei bambini alla nascita, in termini di aspettativa di vita e massa corporea, così da gettare un’ombra funesta sulle prospettive di sviluppo di lungo periodo. Questi effetti deriverebbero direttamente dalla riduzione di raccolto disponibile nelle zone agricole, non solo negli anni durante i quali si manifestano eventi metereologici estremi, ma in maniera più lenta e progressiva.

I risultati mostrano come l’aridificazione dei suoli abbia comportato, tra il 1995 e il 2005, una perdita globale di circa 1,7 milioni di tonnellate di mais, 81mila tonnellate di riso, 786mila tonnellate di soia e 430mila tonnellate di grano.

Lo studio usa modelli previsionali di lungo periodo del potenziale di evapotraspirazione dei suoli, ovvero della capacità del terreno di trattenere la giusta quantità di acqua e prevede che l’aridificazione possa costare fino a 0,8 tonnellate per ettaro di raccolto coltivato nell’Africa subsahariana ogni anno fino al 2040.

Se non si agisce subito per contrastare l’effetto dell’aridità sulla produttività dell’agricoltura e, dunque, sulla disponibilità di cibo, il continente africano potrebbe perdere, nell’arco di meno di un secolo, oltre un terzo della propria produzione che, con l’incremento della popolazione, porterebbe a una netta riduzione del benessere individuale.

La crisi dell’orto botanico di Pisa

Secondo la ricerca pubblicata su Sustainability da Marco D’Antraccoli, Nóra Weiger, Leonardo Cocchi dell’orto botanico dell’università di Pisa in collaborazione con il direttore Lorenzo Peruzzi del Dipartimento di biologia e del Centre for Climate Change Impact dell’ateneo pisano, «il 60 per cento degli alberi attualmente presenti nell’orto botanico di Pisa sono a rischio estinzione entro la fine del secolo a causa del cambiamento climatico».

L’orto e museo botanico dell’università di Pisa è il più antico al mondo per fondazione e annovera tra le sue collezioni oltre 2.000 specie provenienti da ogni parte del mondo. Tra queste vi sono circa 200 specie di alberi, tra cui alcuni esemplari di carattere monumentale, come un Ginkgo biloba e una magnolia messa a dimora nel 1787.

D’Antraccoli, curatore dell’orto botanico, sottolinea che la ricerca analiza alcuni scenari di cambiamento climatico possibili, confrontando poi le condizioni climatiche attese per il futuro con quelle tipiche delle specie che attualmente si hanno in coltivazione. Secondo lo scenario più pessimistico dello studio, entro la fine di questo secolo fino al 60 per cento delle specie arboree coltivate si troverà al di fuori delle condizioni climatiche compatibili con la loro vita, sia per precipitazioni che temperature. Tra le specie più a rischio ci sono ad esempio l’alloro (Laurus nobilis), la noce del Caucaso (Pterocarya fraxinifolia), la palma del Cile (Jubaea chilensis) e la sequoia (Sequoia sempervirens).

Spiega Peruzzi: «Conoscere il grado di sensibilità ai cambiamenti climatici dei singoli esemplari permette di cartografare delle vere e proprie mappe di rischio climatico dell’intero orto botanico che permetteranno di iniziare ad elaborare un piano a medio-lungo termine di sostituzione di specie, in modo da mitigare quello che verosimilmente sarà un significativo impatto sul patrimonio arboreo e sull’assetto del giardino».

I “palloni sonda” per esplorare Venere

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L’interesse per l’esplorazione di Venere è recentemente aumentato, soprattutto dopo una contestata scoperta sulla presenza di “fosfina” nell’atmosfera del pianeta, una sostanza chimica che, se esiste realmente, è una potenziale firma biologica. Sono state proposte molte missioni su Venere e la Nasa e l’Esa ne hanno recentemente finanziate alcune. 

Tuttavia, sono principalmente missioni orbitanti, ossia sonde che cercheranno di scrutare dall’alto l’interno del pianeta. L’atmosfera di Venere è molto densa e composta per lo più da anidride carbonica con nubi ricche di acido solforico e dunque una barriera per studiare la superficie. Sebbene alcune delle missioni recentemente finanziate includano una componente che raggiungerà il suolo, stanno perdendo, secondo alcuni scienziati, un’opportunità che non è offerta su molti altri pianeti del sistema solare: cavalcare nell’atmosfera.

Per ora, i palloni sonda sembrano essere il sistema più semplice per la ricerca. Una seria proposta arriva da un gruppo di ricercatori del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, che vuole studiare in modo approfondito la possibile esistenza di vulcanismo attivo sul pianeta più vicino a noi.

Gli scienziati hanno a lungo pensato che ci fossero vulcani attivi su Venere, ma è stato solo un recente uno studio che ha rianalizzato i dati della sonda Magellano inviata attorno a Venere negli anni Novanta dalla Nasa a mettere in luce parametri che hanno fatto aumentare la certezza, ora vicina quasi al 100 per cento. Una missione di pallori sonda proposta dal JPL aiuterebbe a far luce su questo fenomeno. Il progetto della missione prevede l’utilizzo di una rete di palloni aerostatici e di un satellite in orbita per posizionarsi al di sopra di eventi vulcanici attivi e raccogliere quanti più dati possibili da essi. 

Potrebbe sembrare difficile, soprattutto senza degli uomini che controllino dove vanno i palloni sonda, ma l’impresa non è impossibile. Per individuare un vulcano in attività i ricercatori del JPL hanno proposto di utilizzare una tecnologia chiamata “microbarometri a infrasuoni: in pratica, minuscoli strumenti dovrebbero rilevare le differenze di pressione nell’atmosfera causate da esplosioni vulcaniche. Analizzare questi dati potrebbe indicare la direzione dell’onda di pressione che le eruzioni creano. 

Ma la domanda ovvia è: anche se si sta puntando nella giusta direzione, come può un pallone senza un proprio sistema di propulsione attivo avvicinarsi abbastanza da iniziare a raccogliere dati? La risposta dei ricercatori è: cavalcando i venti. L’atmosfera di Venere è complessa e strati diversi possono avere venti direzionali diversi con velocità differenti, una situazione non molto dissimile da quella terrestre. 

Un pallone potrebbe sollevarsi o abbassarsi nella giusta corrente del vento e farsi guidare verso la direzione dell’eruzione. Suona piuttosto elegante tutto questo, ma un pallone da solo avrebbe comunque serie difficoltà nel rilevare le correnti dei venti al di fuori della sua area, rendendo difficile, se non impossibile, pianificare un percorso verso il vulcano. 

Qui entra in gioco la cooperazione “palloni aerostatici-sonda in orbita venusiana”. Orbitare sopra il pianeta e guardare in basso attraverso l’atmosfera ha un vantaggio: consente alla sonda di vedere diverse correnti di vento che potrebbero essere utilizzate per dirigere i palloni nella giusta direzione. 

Ancora meglio, se un pallone rileva un cambiamento di pressione interessante, ma non riesce a trovare un modo per arrivarci dalla sua condizione di vento locale, la sonda in orbita venusiana potrebbe trasmettere quell’informazione direttamente a uno degli altri palloni del gruppo, che potrebbe avere maggiori possibilità di raggiungere l’obiettivo. Quindi, oltre a fungere da navigatore per un singolo pallone, potrebbe anche fungere da staffetta e coordinatore per un’intera flotta di palloni. Pertanto, un sistema automatizzato di questo genere attorno al pianeta potrebbe risultare il modo migliore e più rapido per trovare la strada verso questi eventi spettacolari nel minor tempo possibile.

Una volta che un pallone riesce ad arrivare sopra un vulcano attivo, potrebbe persino essere in grado di far cadere un carico utile direttamente nella caldera, raccogliendo informazioni preziose, per quanto breve possa essere la missione. E sarebbe davvero un risultato unico per capire come si è evoluto un pianeta che per tanti aspetti assomiglia al nostro, mentre, per tanti altri, è distante anni luce.

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