Misurare l’equilibrio tra l’energia che la Terra riceve dal Sole e quella che riesce a restituire allo spazio è uno dei modi di osservare il riscaldamento globale. Cosa dicono gli ultimi dati
Quando si parla di cambiamento climatico, la misurazione delle temperature medie globali è uno degli strumenti più noti per osservarne l’evoluzione. Tuttavia, questo metodo ha dei limiti, soprattutto a causa delle variazioni naturali che possono mascherare o amplificare le tendenze a lungo termine.
Esiste però un altro approccio, ancora più diretto e rivelatore: misurare l’equilibrio tra l’energia che la Terra riceve dal Sole e quella che riesce a restituire allo spazio. Questo bilancio energetico, oggi, risulta profondamente sbilanciato, un segnale inequivocabile che il nostro pianeta sta trattenendo sempre più calore.
Secondo uno studio recente, lo squilibrio energetico della Terra è più che raddoppiato negli ultimi vent’anni. Questo fenomeno, confermato anche da altri gruppi di ricerca, ha superato le previsioni formulate dai modelli climatici. A metà degli anni Duemila, la differenza tra energia entrante e uscente era di circa 0,6 watt per metro quadrato (W/m²).
Oggi, quel valore è salito a circa 1,3 W/m². In termini pratici, significa che la Terra trattiene il doppio dell’energia rispetto a vent’anni fa, un aumento che ha importanti implicazioni sul ritmo e sull’intensità del riscaldamento globale.
Dati dal cielo e da terra
Se considerassimo il pianeta come un conto bancario energetico, questo squilibrio rappresenterebbe una continua entrata di “capitale termico” che non viene speso: i depositi aumentano, ma il saldo positivo diventa un problema.
Questo calore extra modifica drasticamente le condizioni climatiche. Circa il 90 per cento di questa energia in eccesso viene assorbito dagli oceani, grazie alla loro capacità di trattenere calore in profondità. Solo una minima parte resta nell’atmosfera o viene impiegata per fondere i ghiacci, come quelli dei Poli, dei ghiacciai montani o del mare Artico.
Ma come fa il nostro pianeta a perdere calore? In parte lo riflette grazie alla presenza di superfici bianche come neve, ghiaccio e certe nubi luminose. Inoltre, emette radiazione infrarossa che dovrebbe dissiparsi nello spazio. Eppure l’equilibrio che ha permesso alla civiltà umana di prosperare con una temperatura media globale stabile attorno ai 14°C è oggi spezzato.
Le temperature sono già aumentate tra 1,3 e 1,5°C, e il trend appare tutt’altro che destinato a rallentare. Per monitorare questo squilibrio, gli scienziati si affidano a due metodi complementari.
Il primo utilizza sofisticati radiometri a bordo di satelliti in orbita dai tardi anni Ottanta, capaci di misurare con grande precisione sia l’energia solare assorbita che quella restituita. Il secondo metodo si basa su migliaia di boe robotiche distribuite negli oceani dal 1990, che rilevano costantemente la temperatura dell’acqua, contribuendo a una mappa termica globale estremamente accurata.
Entrambi i sistemi mostrano un dato inequivocabile: l’energia in eccesso cresce più rapidamente del previsto. Questo ha colto di sorpresa anche i modelli climatici più avanzati, che prevedevano un incremento molto più contenuto. Il fatto che la realtà stia superando le simulazioni suggerisce la presenza di variabili non ancora completamente comprese. Tra queste, un ruolo centrale potrebbe essere svolto dalle nubi.
Le nubi, infatti, hanno una funzione cruciale nel regolare la temperatura terrestre, soprattutto quelle bianche e riflettenti, che respingono una parte della radiazione solare. Negli ultimi anni, però, queste nubi sono diminuite, lasciando spazio a formazioni più disorganizzate e meno riflettenti. Le ragioni di questa trasformazione non sono chiare. Un’ipotesi chiama in causa le nuove normative ambientali entrate in vigore nel 2020, che hanno ridotto il contenuto di zolfo nei carburanti marittimi.
Il minor rilascio di particelle inquinanti potrebbe aver avuto un effetto “schiarente” sulle nubi, diminuendo la loro efficacia nel riflettere il calore. Tuttavia, il cambiamento del bilancio energetico aveva cominciato a manifestarsi già prima del 2020, indicando che altri fattori sono probabilmente all’opera. Le fluttuazioni naturali del clima, come l’Oscillazione decennale del Pacifico (Pdo), potrebbero contribuire.
Ma la possibilità più allarmante è che le modifiche nella copertura nuvolosa siano in realtà una conseguenza diretta del riscaldamento globale stesso. Questo costituirebbe un “feedback positivo”: il calore accumulato altera le nubi, che a loro volta riducono la dispersione del calore, accelerando ulteriormente il riscaldamento.
L’osservazione continua
Le conseguenze di tutto ciò potrebbero essere gravi e durature. Temperature estreme, siccità prolungate, piogge torrenziali e ondate di calore marine potrebbero intensificarsi nei prossimi anni, diventando eventi sempre più frequenti e violenti. I modelli climatici che meglio riflettono la realtà attuale sono quelli con maggiore “sensibilità climatica”, ovvero quelli che prevedono un riscaldamento marcato qualora le emissioni di gas serra non vengano drasticamente ridotte.
Un elemento fondamentale per affrontare il futuro è la capacità di raccogliere dati affidabili e continui sullo stato del sistema climatico. In questo senso, i satelliti rappresentano la nostra migliore linea di difesa: sono in grado di rilevare segnali di squilibrio energetico con un decennio di anticipo rispetto ad altri strumenti.
Purtroppo, proprio ora che questi dati sono più preziosi che mai, i tagli ai finanziamenti e la ridefinizione delle priorità politiche negli Stati Uniti rischiano di compromettere seriamente la nostra capacità di osservazione. Mantenere — e anzi rafforzare — la rete di monitoraggio satellitare significa salvaguardare la nostra capacità di comprendere e affrontare un cambiamento climatico che si sta rivelando più rapido, più profondo e più imprevedibile di quanto avessimo mai immaginato.
Alla ricerca delle prime stelle
Nell’affascinante indagine cosmica che l’umanità conduce da secoli, la scoperta delle stelle di Popolazione III (PopIII) — la primissima generazione di stelle nate dopo il Big Bang — rappresenta una delle sfide più ambite dell’astrofisica moderna. Questi colossi ancestrali, ipoteticamente centinaia di volte più massicci del Sole, sarebbero stati forgiati esclusivamente da idrogeno ed elio, gli unici elementi prodotti dall’universo primordiale.
Prive di “metalli” — nel gergo astronomico, tutti gli elementi più pesanti dell’elio — le stelle PopIII avrebbero caratteristiche radicalmente diverse da qualsiasi stella osservabile oggi. Eppure, nonostante la potenza senza precedenti del James Webb Space Telescope (JWST), nessuna di queste stelle è mai stata identificata con certezza.
Le difficoltà sono dovute in gran parte all’approccio convenzionale: le ricerche si sono finora concentrate su sistemi stellari completamente privi di elementi pesanti, cercando di catturare fugaci segnali di emissione di elio puro, esente da qualsiasi traccia metallica. Ma questa “firma” è tanto breve quanto difficile da rilevare, il che ha lasciato gli astronomi con una finestra osservativa estremamente limitata, una caccia quasi impossibile.
Ora, però, una nuova ricerca firmata da Elka Rusta dell’Università degli studi di Firenze introduce una svolta radicale nella strategia. Invece di inseguire la perfezione chimica assoluta, il team propone di concentrare l’attenzione sulle galassie nel bel mezzo di una fase chiamata “autoinquinamento”.
Si tratta di un momento critico nell’evoluzione delle prime galassie: le stelle PopIII più massicce, al termine della loro breve esistenza, esplodono come supernovae, disperdendo elementi pesanti nel gas circostante. Tuttavia, molte delle stelle originarie, formatesi da materiale incontaminato, sono ancora attive e visibili. Questa fase di transizione offre un’opportunità unica. Sebbene le stelle siano prive di metalli, il gas che le circonda può già mostrare segni di arricchimento chimico.
Le galassie in questa fase “ibrida” possono quindi emettere linee spettrali metalliche rilevabili, pur ospitando ancora una significativa popolazione di stelle primitive. In altre parole, l’inquinamento ambientale non cancella necessariamente le tracce delle stelle PopIII, ma anzi può renderle individuabili. E il vantaggio è notevole: la finestra di rilevazione si amplia da una manciata di milioni di anni a periodi molto più lunghi e più facili da intercettare.
I risultati dello studio offrono anche prospettive incoraggianti sui tempi di osservabilità. Secondo i calcoli del team, la tipica emissione di elio delle galassie PopIII può durare fino a 20 milioni di anni.
Ancora più interessante, questa firma rimane parzialmente visibile anche quando iniziano a formarsi le prime stelle di seconda generazione, dando origine a una miscela temporanea di popolazioni diverse. Per sfruttare questa nuova strategia, il team ha messo a punto strumenti diagnostici innovativi, basati sull’analisi di linee metalliche ultraviolette.
Tra i principali indicatori vi sono specifici rapporti tra le emissioni di ossigeno doppiamente ionizzato e idrogeno beta: segnali ben più facili da rilevare rispetto alla mera assenza di metalli, notoriamente ambigua da dimostrare. Applicando questi strumenti ai dati raccolti dal JWST, i ricercatori hanno identificato nove galassie candidate che sembrano contenere oltre il 25 per cento della loro massa stellare in stelle prive di metalli. Si tratta di un progresso significativo rispetto agli studi precedenti.
Questo successo dimostra l’efficacia del nuovo approccio: basarsi su segnali positivi — cioè sulla presenza di particolari pattern spettroscopici — piuttosto che sull’assenza di elementi, offre risultati concreti. Se queste galassie “in autoinquinamento” venissero confermate come ospiti di autentiche stelle PopIII, le implicazioni sarebbero straordinarie. Gli scienziati potrebbero finalmente osservare le dinamiche con cui i primi elementi pesanti si sono diffusi nell’universo nascente.
Le stelle Popolazione III restano ancora, per ora, un mistero. Ma grazie a una prospettiva più elastica e lungimirante — meno legata al concetto di “purezza” assoluta — potremmo finalmente essere sulla buona strada per intercettare le prime luci dell’alba cosmica.
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