La commissione d’inchiesta sugli illeciti ambientali del parlamento ha approvato il 19 gennaio la relazione sulla diffusione delle sostanze perfluoroalchiliche, o Pfas, sul territorio nazionale. La relazione evidenzia come la presenza di questi composti sia generalizzata e sistematica  non solo nelle aree più colpite come Piemonte e Veneto, ma pure in altre regioni italiane.

In Emilia Romagna, negli ultimi anni Arpa ha registrato uno sforamento esponenziale degli standard di qualità delle acque per quanto riguarda i Pfas. Così la regione Toscana dove i risultati dei monitoraggi hanno evidenziato la presenza sistematica di questi composti, ad esempio, nell’Arno. E lo stesso discorso vale anche per la Lombardia, il Lazio e potenzialmente anche per il resto del territorio italiano.

Contaminazione diffusa

Secondo quanto riporta la relazione, la produzione, l’utilizzo massiccio di prodotti a base di Pfas e il conseguente tentativo di smaltirli, sotto forma fanghi di depurazione o acque reflue, ha portato alla contaminazione dei corsi d’acqua che scorrono sotto le discariche. Ampliando in questo modo l’inquinamento in misura esponenziale.

Ricordiamo infatti che si tratta di composti chimici persistenti, estremamente mobili, distribuiti ormai ovunque nell’ambiente. Si pensi solo che si possono trovare addirittura nelle creme, negli alimenti, nei vestiti, nelle schiume antincendio, nelle schiume da barba.

La commissione di inchiesta per questo motivo ritiene che non si possa escludere che la contaminazione da Pfas sia ormai diffusa dappertutto. Tuttavia non esiste ancora la certezza, mancano le rilevazioni nelle altre regioni italiane. Rilevazioni che non sono mai state realizzate perché le agenzie ambientali sono prive delle strumentazioni necessarie per individuare questi composti.

La legge non pone limiti

Il dato più rilevante emerso dall’indagine svolta dalla commissione parlamentare di inchiesta è che nella normativa italiana non sono ancora fissati i limiti sulle principali matrici ambientali. Con la conseguenza che mancando qualsivoglia freno al limite di questi composti nei fiumi, nelle falde o nei terreni, viene impedito alle autorità competenti di intervenire per imporre le bonifiche.

Come d’altronde dimostrano molto bene i casi di Trissino e Spinetta, dove nessun piano di bonifica è stato fino ad ora effettivamente realizzato. E in questo senso la commissione auspica dei limiti da adottare complessivamente per tutti i Pfas non superiori a 0,5 μg/l. 

Circa quali limiti invece adottare agli scarichi la commissione ha richiesto una relazione tecnica a Ispra, la quale ha suggerito che secondo il principio di precauzione l’unico valore razionale dovrebbe essere lo zero. Secondo l’Istituto superiore per la protezione ambientale infatti si tratta di composti che devono essere vietati, perché non siamo in grado di smaltire e perché anche se prodotti in piccole quantità si accumulano nell’uomo e nell’ambiente per un tempo indefinito. 

«Si tratta di un fenomeno preoccupante, e a cui il ministro Roberto Cingolani deve porre un freno istituendo dei limiti conformi. Il combinato disposto degli articoli 75 e 101 del decreto legislativo 152 del 2006 infatti non lasciano spazio a dubbi riguardo a chi spetti la competenza», si legge in un comunicato diffuso dalla commissione. È lo stato, attraverso il ministero della Transizione ecologica, che deve rispondere della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. 

Le conseguenze penali

Inoltre la mancanza di un limite non è solamente un ostacolo per imporre la bonifica dei territori contaminati, ma influenza anche il riconoscimento penale dei danni che questi composti arrecano alla salute. La stessa procura della Repubblica infatti dubita dell’esistenza di un danno, inteso come elemento oggettivo del reato, provocato dall’esposizione ai Pfas.

Perché nonostante le ricerche condotte in Veneto dal professor Carlo Foresta del Consiglio superiore di sanità e in Piemonte dalla dottoressa Cristina Ivaldi dell’Arpa, in entrambe le regioni non è mai stato avviato il biomonitoraggio della popolazione umana. Monitoraggio dalla quale potrebbe emergere in maniera inequivocabile il legame causa-effetto tra l’esposizione di questi composti e il danno sulla salute. 

Per questo motivo la commissione ecomafie ha incaricato il dottor Andrea di Nisio, dell’università di Padova, di redigere una relazione tecnica con l’intenzione di fare il punto sui risultati della ricerca nazionale e internazionale.

L’obiettivo è quella di dimostrare al ministero come le evidenze ci siano, quello che manca è il riconoscimento e l’azione da parte degli organi istituzionali. Come dimostra bene il caso dei lavoratori Miteni, ai quali l’Inail ha riconosciuto solo in parte il danno arrecato alla salute da questi composti.

L’ente pubblico equipara il Pfoa accumulato nel sangue dei lavoratori ad una sostanza inerte. Una sostanza quindi che non sarebbe in grado di produrre alcuna conseguenza fisiopatologica, nonostante sia stato dimostrato il legame tra l’esposizione a questi composti e l’aumento dell’ipercolesterolemia, dell’ipertensione, di patologie tiroidee, alterazioni a livelli renali, alterazioni scheletriche, alterazioni riproduttive maschili, tossicità materna e fetale, di alcune tipologie di cancro e ad una diminuzione della risposta vaccinale.

Queste evidenze infatti non rappresentano una posizione riconosciuta dagli organismi nazionali e istituzionali in materia di salute.

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