Il nostro pianeta è in bilico sull’orlo di diversi punti critici climatici che, una volta superati, potrebbero crollare in una cascata di cambiamenti ecologici e ambientali senza precedenti a memoria d’uomo.

Le ondate di caldo estremo (non ultima quella avvenuta in Spagna alla fine di aprile 2023), le siccità, le inondazioni e le tempeste stanno diventando più comuni e intense; l’energia intrappolata dall’atmosfera terrestre e dagli oceani stanno avendo ripercussioni e ricadute ormai incontestabili e drammatiche.

Ora, un nuovo studio che simula il futuro della Terra fino al 2100, mostra come i cambiamenti incrementali di temperatura e precipitazioni potrebbero alterare i climi al punto che dovremo ridisegnare le mappe climatiche concepite per la prima volta nel 1880. «Entro la fine del secolo, si prevede che dal 38 al 40 percento della superficie terrestre si troverà in una zona climatica diversa rispetto ad oggi», scrive il team di ricercatori , guidato dall’autore senior Paul Dirmeyer, uno scienziato del clima presso George Mason University della Virginia.

Le variazioni

A seconda dei modelli climatici utilizzati dai ricercatori per generare proiezioni del futuro cambiamento globale, tali stime potrebbero aumentare ulteriormente, in modo tale che quasi il 50 per cento della superficie terrestre della Terra potrebbe trovarsi in una zona climatica diversa dall’attuale e al momento non ben identificabile. I cambiamenti sono diventati più pronunciati con l’ultima generazione di modelli climatici, che sono più precisi rispetto ai precedenti e prevedono tassi più elevati di riscaldamento globale. Per tracciare i cambiamenti previsti, Dirmeyer è tornato alle mappe Köppen-Geiger, un sistema utilizzato per classificare il mondo in cinque zone climatiche in base a temperatura, precipitazioni e stagioni e che solitamente si studiano a scuola.

Sviluppate da un climatologo tedesco-russo di nome Wladimir Köppen nel 1884, le mappe di classificazione climatica sono state aggiornate numerose volte da allora e sono ampiamente utilizzate per modellare la distribuzione e la crescita delle specie. Ma ora gli aggiornamenti potrebbero essere strutturali, senza precedenti. I cambiamenti nelle zone climatiche che Dirmeyer e colleghi hanno previsto non sono che uno spettro di possibilità, perché simulare la fisica di alcune variabili climatiche come le precipitazioni è più difficile da fare che per altre, come la temperatura. Coprono anche solo le masse terrestri, tralasciando gli oceani della Terra e l’Antartide (a causa di lacune nei dati).

Ciò che è chiaro, tuttavia, è che se non agiamo presto per ridurre le emissioni, i tassi di riscaldamento globale continueranno ad accelerare con il passare dei decenni, «suggerendo che le specie vulnerabili e le pratiche agricole potrebbero avere meno tempo per adattarsi ai cambiamenti climatici rispetto a quanto previsto in precedenza», avvertono i ricercatori. Sulla base della loro analisi, si aspettano che i climi tropicali si espandano, dal 23 al 25 per cento dell’area terrestre, entro il 2100.

Allo stesso modo, si prevede che vi sarà una crescita delle aree aride del pianeta, fino a circa il 34 per cento rispetto al 31 per cento attuale. Questi tipi di cambiamenti, mostrano altri studi, potrebbero scuotere i sistemi di produzione alimentare e spingere le malattie trasmesse dalle zanzare in nuove aree. I maggiori spostamenti verso nuovi climi sono previsti nelle zone climatiche fredde dell’Europa e del nord America. 

Entro il 2100 fino all’89 per cento dell’Europa e quasi il 66 per cento del Nord America potrebbero scivolare in una zona climatica diversa. Le persone che vivono in altre regioni come l’Africa subiranno cambiamenti della loro zona climatica soprattutto in seguito agli eventi meteorologici estremi.

Di gran lunga, il cambiamento più drammatico avverrà nella zona polare, che copriva quasi l’8 per cento della superficie terrestre del nostro pianeta tra il 1901 e il 1930, ma che si è già ridotta al 6,5 per cento con poco meno di 1,2°C di rialzo della temperatura globale. Questo è uno dei risultati più sconcertanti dello studio, che cattura quanto il nostro pianeta sia già cambiato. E a conferma scrivono Dirmeyer e colleghi: «Dall’inizio del 20° secolo, la Terra ha già sperimentato un cambiamento della classificazione climatica del 14,77 per cento, con i cambiamenti più estesi osservati in nord America, Europa e Oceania».

Le tre ondate dei sapiens

È noto che l’Homo sapiens sia arrivato in Europa dopo il Neanderthal e che per motivi non ancora del tutto chiari sia riuscito a sopraffarlo. Ora, dopo una serie di importanti scoperte, gli scienziati stanno riscrivendo la storia del modo con il quale gli umani moderni hanno preso il sopravvento sui Neanderthal.

Queste nuove idee nascono dal momento in cui, a partire dal 2022, gli archeologi avevano scoperto diverse prove che suggerivano che i primi avventurieri di sapiens a prendere possesso del nuovo continente vi arrivarono 10mila anni prima del previsto rispetto a quanto si ipotizzava fino ad allora. Quel gruppo di uomini in avanscoperta tuttavia, non fu l’unico a lasciare l’Africa per l’Europa e molto probabilmente non ebbero neppure grande successo.

Una nuova analisi infatti, basata su migliaia di manufatti in pietra dimostra che nel Paleolitico la nostra specie si è diffusa in tutta Europa grazie ad almeno tre ondate successive, distinguibili tra loro per tecnologia circa la fabbricazione di utensili che risultano essere molto diverse le une dalle altre, ognuna delle quali sopraffece e sostituì la precedente.

Vi sarebbero dati che fanno pensare che i Neanderthal che vivevano in Europa avrebbero addirittura contrastato (in che modo non si sa) una di queste ondate. Secondo l’autore dello studio, il paleoantropologo Ludovic Slimak, l’area Mediterranea francese è priva di reperti della seconda ondata di migrazione, mentre luoghi più ad ovest, come la Spagna, ospitavano in abbondanza gli strumenti del secondo flusso migratorio dei sapiens. Ciò vuol dire che i Neanderthal dell’area francese si “ribellarono” all’arrivo dell’homo sapiens per la seconda volta? Stando a Slimak sarebbe così, sembra infatti, che per almeno 12 millenni, i Neanderthal della Valle del Rodano, siano riusciti a tenere a bada i migranti sapiens, anche se alla fine vennero sopraffatti dalla terza ondata. L’analisi condotta dall’università di Tolosa in Francia è molto ampia tant’è che ha preso in considerazione oltre 17mila manufatti in pietra raccolti nel Mediterraneo orientale in particolare in Libano, i quali poi stati confrontati con quelli sull’area europea. 

Secondo Slimak, le tre fasi di fabbricazione degli utensili sono ben distinte. La prima infatti, vede soprattutto scaglie di pietre, nella seconda appaiono armi come lance e archi con punte accuratamente sagomate, mentre nella terza diventano comuni la lame molto sottili. Slimak sostiene che vi siano state varie ondate perché nei reperti europei non si vede una graduale evoluzione tra una tecnica e l’altra, bensì dei salti, proprio come succede se vi fosse stata un’invasione culturale.

La prima ondata di tecnologia degli utensili conferma ciò che Slimak e i suoi colleghi avevano scoperto nel 2022, ossia che i primi sapiens si ritrovarono in Europa tra 51.700 e 56.800 anni fa. La cultura della lavorazione di utensili in questo momento era coerente tra le diverse comunità sapiens che vivevano dalla Francia all’Ucraina. E sembra che anche i Neanderthal avessero adottato alcune di queste tecniche di base per modellare la pietra. Ma poi, improvvisamente, nella documentazione archeologica del Libano (dove è stato raccolto il maggior numero di reperti) si sono verificate due trasformazioni evidenti a cui seguirono le invasioni in Europa.

Nel nostro continente la prima apparve circa 45mila anni fa. È indicativo della cultura chatelperroniana, nota per modellare lame di pietra più piccole e complesse con punte rinforzate. Questo tipo di fabbricazione di strumenti non compare però, nei siti archeologici umani trovati in Francia, ma solo più a ovest, in Spagna e Slimak ha interpretato la presenza di tali reperti come legati ad una seconda ondata migratoria umana che non interessò la Francia.

«Potrebbe essere che nello stesso spazio geografico che ha visto le prime migrazioni di H. sapiens in Europa, i gruppi di Neanderthal non consentissero più l’accesso al loro territorio precedente?», si chiede Slimak. Questa è solo una speculazione, ma le coincidenze sono curiose. 

Slimak identifica anche una terza ondata che portò la fabbricazione di utensili in Europa caratterizzata da lame lunghe e sottili.

Questa ondata finale è presente nelle prove archeologiche dal Libano fino a tutta l’Europa occidentale, compreso il Mediterraneo francese, creando così per la prima volta un fronte culturale umano unito. «Fino al 2022, si credeva che l’Homo sapiens avesse raggiunto l’Europa tra il 42° e il 45° millennio», afferma Slimack. «Lo studio mostra che questa migrazione sapiens sarebbe in realtà l’ultima di tre grandi ondate migratorie verso il continente e ciò riscrive profondamente quel che si pensava sull’origine dei sapiens in Europa».

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