Quest’anno il Parco Nazionale del Gran Paradiso compie un secolo di vita. Ma forse è l’anno peggiore per celebrare questa ricorrenza. I suoi ghiacciai infatti, si stanno ritirando come non mai. Quello della cima simbolo del Parco stesso, ha visto un ritiro frontale di 209,5 metri rispetto al 2021. Lo ha fatto sapere il Corpo di sorveglianza del Parco che monitora i ghiacciai con la collaborazione del Comitato glaciologico italiano.

Ghiacciai in ritiro

Su 57 ghiacciai presenti nell’area si è rilevato un pesante arretramento frontale per 36 di essi. Degli altri non si è riusciti ad avere dati certi. L’arretramento frontale medio del 2022 è stato di -41 metri, più del triplo del dato medio del periodo 1993-2021 (-13 m), e questo dice quanto drammatica sia stata la stagione estiva del 2022.

Ma la situazione di quest’anno, che ha segnato il record per il ritiro dei ghiacciai, va vista nell’andamento generale degli ultimi decenni. Il ghiacciaio del Grand Etret, che viene seguito con particolare attenzione come elemento di riferimento con gli altri ghiacciai, ha visto una riduzione della superficie del 58 per cento dal 1999 a settembre 2022 e una perdita di spessore medio di oltre 25 metri. Per avere un’idea si pensi alla fusione di uno spessore di ghiaccio alto come un palazzo di otto piani.

Problemi per gli insetti

25 May 2020, Lower Saxony, Wunstorf: An insect sits on a flower strip at the edge of a field. The state government of Lower Saxony has reached an agreement with nature conservationists and farmers on binding targets for species protection. Photo by: Julian Stratenschulte/picture-alliance/dpa/AP Images

Gli insetti, per numero di specie e di individui, sono i veri pilastri del buon funzionamento degli ecosistemi, ma le dimensioni ridotte, l’incapacità di regolare la temperatura corporea, la bassa capacità di dispersione di talune specie e alta di altre, li rendono particolarmente sensibili ai cambiamenti ambientali indotti dal riscaldamento globale.

Un articolo a cui hanno lavorato oltre 70 scienziati, tra cui Mauro Gobbi del Muse di Trento, pubblicato su Ecological Monographs affronta le conseguenze a livello ambientale del rapido aumento delle temperature medie del globo e dell’intensificazione degli eventi estremi. Lo studio ha scoperto che il cambiamento climatico modula la fisiologia e il comportamento di tali animali con effetti marcati sui cicli vitali, la riproduzione e la persistenza delle popolazioni. In particolare, alcune specie stanno traendo vantaggi dai cambiamenti climatici facendo soccombere altri insetti, mentre altre si stanno estinguendo localmente.

Ciò porta a cambiamenti significativi nella struttura e nel funzionamento delle interazioni tra specie, con ripercussioni potenzialmente gravi sulla stabilità e sul funzionamento degli ecosistemi e successivamente sulla fornitura di servizi ecosistemici come l’impollinazione o il controllo delle malattie. Se questi sono gli effetti prodotti in generale dal riscaldamento globale, ancora più consistenti sono quelli generati dagli eventi climatici estremi che, sommandosi ai primi, hanno ripercussioni a cascata sempre più difficili da gestire.

Quattro sono gli eventi estremi affrontati dallo studio, la cui frequenza e ampiezza aumentano in modo allarmante: ondate di caldo e di freddo, episodi di siccità, eccessi di precipitazioni e incendi. Tra gli esempi, non mancano evidenze degli effetti dei cambiamenti climatici in ambiente alpino, con particolare riferimento alle aree glacializzate, dove ha lavorato in modo particolare Gobbi: «La constatazione sulle ricadute negative è schiacciante, con effetti istantanei e brutali sulle popolazioni di insetti colpite. Anche se gli effetti a lungo termine di questi eventi estremi rimangono poco esplorati, le prognosi sono negative per molte specie che non hanno le capacità di resistenza e di adattamento alla pressione che i cambiamenti climatici stanno avendo sull’ambiente».

Un suggerimento per ridurre tali drammatiche conseguenze è la realizzazione e l’individuazione di adeguati rifugi microclimatici e l’accesso a fonti nutritive senza pesticidi. Di conseguenza, le aree naturali esistenti devono essere rigorosamente preservate e possibilmente estese. Va ripensata l’agricoltura e bisogna concentrarsi sull’intensificazione di sistemi di produzione ecosostenibili, creando aree di habitat naturali e seminaturali utili a mitigare gli effetti negativi del cambiamento climatico.

Tempeste “scritte” nelle piante

21 April 2022, Brandenburg, Sieversdorf: The annual rings are clearly visible on a tree trunk of a common Douglas fir, often simply called Douglas fir. Photo by: Patrick Pleul/picture-alliance/dpa/AP Images

Un gruppo di ricerca, guidato dal Benjamin Pope della School of Mathematics and Physics dell’università del Queensland, ha applicato statistiche all’avanguardia ai dati di alberi millenari, per saperne di più su alcune “tempeste” di radiazioni di cui si conosceva pochissimo circa la loro esistenza e la loro provenienza. E i risultati sono stati alquanto sorprendenti. Spiega Pope: «Esistono gigantesche esplosione cosmiche, note come “Miyake events” che sembrano verificarsi mediamente una volta ogni mille anni, ma di cui non conosciamo né cause, né provenienza. Fino ad oggi l’ipotesi principale per spiegarli si rivolgeva al Sole, sostenendo che siano conseguenza di enormi brillamenti solari. È indiscutibile che dobbiamo saperne di più, perché se si verificasse oggi, un evento del genere distruggerebbe la tecnologia spaziale su cui facciamo affidamento, inclusi satelliti, cavi internet, linee elettriche a lunga distanza e trasformatori di ogni genere. L’effetto sull’infrastruttura globale sarebbe inimmaginabile».

Qingyuan Zhang, coautore della ricerca, pubblicata su Proceedings of the Royal Society, ha sviluppato un programma al computer che è in grado di analizzare ogni dato disponibile all’interno degli anelli degli alberi. «Poiché puoi contare gli anelli di un albero per identificarne l’età, puoi anche osservare eventi cosmici storici che risalgono a migliaia di anni fa che sono rimasti impressi al loro interno», ha sottolineato Zhang. «Quando le radiazioni che arrivano dallo spazio colpiscono l’atmosfera, producono, tra l’altro, carbonio radioattivo-14, che attraverso l’aria finisce anche negli anelli degli alberi. Con i nostri programmi siamo riusciti a modellare il ciclo globale del carbonio-14 su un arco di tempo di 10mila anni e questo ci è servito per comprendere meglio la ripetitività e la natura degli eventi Miyake».

«Quel che abbiamo scoperto è che i nostri risultati toglierebbero il Sole tra i sospettati, perché abbiamo prove che gli Eventi non sono correlati con l’attività delle macchie solari e in alcuni casi arrivano a durare anche uno o due anni. Gli eventi Miyake sembrerebbero delle vere tempeste spaziali più che il risultato di una singola esplosione», ha spiegato Pope. Purtroppo le conclusioni non sono incoraggianti, perché se il Sole non è la causa, nessuno sa spiegarsi cosa li possano produrre. «Sulla base dei dati statistici», ha continuato il ricercatore, «c’è all’incirca l’uno per cento di probabilità che ne accada uno entro il prossimo decennio. Ma non abbiamo la minima idea su come prevederlo. Questo è piuttosto allarmante e quindi è necessario indagare ulteriormente».

Ecco il buco nero più vicino

©NASA/LAPRESSE 19-2-2004 USA VARIE Spazio: astronomi vedono buco nero divorare una stella Gli astronomi dell'osservatorio americano Shandra e dall'Xmm Newton dell'Agenzia spaziale europea hanno visto un buco nero "mangiarsi" una stella. Il fatto e' successo circa 700 milioni di anni fa ma il segnale e' arrivato a noi solo oggi attraverso gli spazi siderali. Lo riferisce la Nasa attraverso un comunicato. Secondo gli astronomi la stella si e' avvicinata troppo al buco nero, che potrebbe avere una massa di un milione di volte superiore a quella del sole, e, attirata dalla forza di gravita' dell buco, sarebbe stata risucchiata all'interno e frantumata.

Anche tra gli astronomi vi sono delle sfide… come quella, ad esempio, di trovare il buco nero più vicino alla Terra. Sappiamo che non ce ne sono così vicini da essere pericolosi per il nostro sistema solare, tuttavia conoscere quello a noi più prossimo permetterebbe di studiarlo meglio e di capire alcuni segreti di questi oggetti che ancora ci sfuggono.

Questa sfida ha portato recentemente alla scoperta del buco nero più vicino alla Terra fino ad oggi: si trova a circa 1.600 anni luce da noi e possiede una “massa stellare”, ossia di sole dieci volte la massa del nostro Sole. Esistono infatti, buchi neri con masse di milioni o di miliardi la massa solare e solitamente si trovano nel cuore delle galassie.

«Una scoperta che non può essere smentita per le caratteristiche che abbiamo osservato», dicono gli autori di un articolo uscito sul Monthy Notices of the Royal Astronomical Society. Perché questa affermazione? Perché non è la prima volta che “viene scoperto il buco nero più vicino alla Terra” che poi non risulta essere tale: circa due anni fa, ad esempio, l’European Southern Observatory (Eso) aveva rivendicato una scoperta simile (il sistema di due stelle HR 6819) il quale era distante appena mille anni luce. Ma Kareem El-Badry, astrofisico presso il Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian e il Max Planck Institute for Astronomy, e primo autore dell’articolo che descrive la nuova scoperta dimostrava che non era un buco nero.

Si trattava più semplicemente di due stelle che interagivano tra loro in modo particolare. Il buco nero della nuova scoperta è stato chiamato Gaia BH1, e fa parte di un sistema di due oggetti (una stella che ruota attorno al buco nero) che è stato scoperto con il telescopio spaziale Gaia.

Successivamente i due oggetti sono stati studiati anche dal grande telescopio Gemini North alle Hawaii. L’oggetto, che è stato classificato come buco nero quiescente, si trova nella costellazione dell’Ofiuco.

Come si è potuto scoprire un buco nero visto che non emette luce? In questo caso la scoperta è stata possibile grazie alle “osservazioni spettroscopiche” del moto della compagna del buco nero, una stella simile al Sole che orbita intorno ad esso ad una distanza pari a quella a cui il nostro pianeta orbita intorno alla sua stella.

Le “analisi spettroscopiche” sono lo studio della luce emessa dalla stella che viene alterata durante la rivoluzione attorno al buco nero invisibile. Scartando tutte le altre possibilità che potrebbero dare origine a fenomeni di alterazione della luce come quella osservata, l’unica possibilità per spiegare quanto si osserva è la presenza di un buco nero. È stato definito “quiescente” perché non sembra interagire con la stella compagna a differenza di altri buchi neri che invece “succhiano” materiale dalle stelle vicine, emettendo raggi X o raggi gamma. La scoperta ha comunque immediatamente suscitato delle domande.

La stella che, morendo, ha dato origine al buco nero doveva essere almeno 20 volte più massiccia del Sole, il che significa che la sua vita durò solo pochi milioni di anni. Ma se la stella compagna esisteva già quando si ebbe la trasformazione in buco nero, data la sua vicinanza sarebbe dovuta finire inghiottita nella stella morente mentre si “gonfiava” prima di esplodere.

Come è potuta sopravvivere? Al momento non c’è risposta. Sottolinea El-Badry: «È interessante che questo sistema non si adatta facilmente ai modelli standard di evoluzione binaria (ossia di due stelle compagne). Pone molti interrogativi su come si sia formato questo sistema, ma anche su quanti buchi neri quiescenti ci possono esserci là fuori».

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