Un fantasma si aggira per l’Europa, è il fantasma dell’ecologismo. Fatti i debiti mutamenti rispetto al famoso Manifesto scritto da Marx e Engels nel 1847-1848, è forse questo il fantasma principale che attualmente pervade, non solo l’Europa, o almeno dovrebbe esserlo.

Dati alla mano, gli scienziati dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), hanno lanciato l’ultimo appello sul cambiamento climatico: sono minacciati gli equilibri ecosistemici planetari e il futuro di miliardi di persone e non c’è più tempo per indugiare nel cambiare rotta.

In meno di due secoli, periodo infinitesimale in termini geologici e breve in termini storici, molte cose sono cambiate ma non sono certo diminuite lotte e conflitti, arricchiti in forme e contenuti e diventati globali.

Lotte e conflitti ambientali come quelli attuali e futuri, nell’800 non erano neppure immaginabili, mentre la predazione delle risorse naturali e i danni ambientali e umani stavano iniziando la loro crescita esponenziale.

Le richieste di difendere la natura e le lotte per il diritto all’accesso e all’uso delle risorse primarie sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di coloro che non si rifiutano di vedere, ma il nuovo spettro è il cambiamento climatico, di cui stiamo osservando un primo assaggio, modesto rispetto a quelli previsti.

Il grido di dolore degli scienziati

Molti hanno colto la forza e l’urgenza del rapporto Ipcc, che sembra rivelare una preoccupazione di fondo: che sia in discussione l’essenza stessa della scienza, o almeno del suo ruolo sociale. Infatti, se i risultati scientifici così forti e ripetuti non sono visti-creduti-usati, aumenta, anche nel mondo della ricerca, lo stato di estraniazione, di smarrimento, di alienazione. Quel senso che pervade l’odierna società e civiltà tecnologica, che modifica l’organizzazione dei ritmi della vita, riduce le persone a oggetto, che priva di identità e autenticità la società tutta. Come si possono ignorare questi aspetti quando ci si interroga sulla (dis)umanizzazione?

Su scala diversa il problema si ripropone in tante occasioni, come a proposito della considerazione dei risultati del VI rapporto Sentieri sui siti nazionali di bonifica. Si tratta di dati scientifici che documentano una sofferenza ambientale diffusa e la relativa fragilità di salute, consolidati da 15 anni in molte aree italiane. Se questi dati non vengono “agiti”, cioè usati in primo luogo per le bonifiche, facilitano lo spostamento del contesto, dal piano scientifico a quello della retorica, e c’è il serio rischio che si scada nella ritualità. 

Lo stesso succede per i dati sull’inquinamento dell’aria, pesantissimi in tante aree densamente popolate, con impatto sulla salute di 30-40.000 decessi prematuri ogni anno solo in Italia, e oltre 4 milioni nel mondo, come stimano Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Agenzia europea dell’ambiente, Rete italiana ambiente e salute, Associazione italiana di epidemiologia e altre società scientifiche.

Anche queste conoscenze “hanno bisogno” di essere usate a scopo preventivo e di essere considerate per definire e accelerare politiche attive. Politiche che dovrebbero riguardare innanzitutto la limitazione dell’uso di combustibili fossili, evitando tra l’altro all’Italia di conquistare il primato europeo tra i paesi che si oppongono alla proposta di stop alla vendita di auto a benzina-diesel dal 2035.

Scienza e tecnica 

L’affidamento alla sola tecnologia per risolvere problemi è il pane non solo dei tecnocrati ma si insinua subdolamente nella mente di molti, anche nel mondo scientifico. Sono infiniti gli esempi in cui è la tecnica a dettare l’agenda della ricerca scientifica oppure in cui non è la scienza a ispirare le decisioni più opportune quando competono tecnologie diverse, come accade per l’estrazione di fossili o l’uso di risorse rinnovabili.

Su questi temi si giocano pezzi significativi del rapporto tra scienza e società, e la possibilità di controllo democratico.

Tre decenni fa il filosofo Hans Jonas aveva scritto: «Piuttosto che difenderci dall’oceano, dobbiamo proteggere l’oceano da noi stessi. Siamo diventati più pericolosi noi per la Natura di quanto essa stessa sia stata per noi. Siamo diventati il nostro maggior pericolo proprio per i nostri stupefacenti risultati nel dominare le cose». E ancora: «Se nell’acquisire la sua supremazia, l’uomo ha mostrato quanto può l’opera di un’intelligenza inventiva sempre più alta, nel farne uso è stato cieco e ha potuto rimanere tale finché il premio delle vittorie ha sovrastato le punizioni della Terra. Questo lungo periodo di tolleranza della cecità è, però, ormai trascorso. La relazione fra l’uomo e la natura è entrata in una nuova fase».

Senza viaggio di ritorno

In quegli anni non erano potuti entrare nel dibattito ancora né l’Antropocene né il cambiamento climatico, ma il pensiero di Jonas era già attuale e portatore di domande: l’homo sapiens ha prodotto l’Antropocene ma, visto che all’Olocene non è possibile ritornare, sarà in grado di affrontarne le sfide di sostenibilità e produrre una vera conversione ecologica del modello di sviluppo? È possibile una rigenerazione dal degrado ambientale o del pianeta?

Certamente lo sviluppo ha consentito di fare passi avanti, le condizioni globali di salute sono migliorate, ma anche qui occorre completare il ragionamento e chiedersi: a quale prezzo? E per chi? E per quanto tempo ancora?

Se negli ultimi 30 anni il carico di malattie misurato dall’Oms è migliorato sensibilmente a livello globale, ciò è avvenuto non ovunque e non per tutti allo stesso modo e con la stessa intensità. Ad esempio, gli anni di vita persi (corretti per la disabilità) risultano il 23 per cento in più nei paesi a basso reddito rispetto a quelli ad alto reddito, e il 21 per cento in più nelle nazioni africane rispetto a quelle aderenti all’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

Le disuguaglianze sono inoltre ampie tra aree continentali, tra paesi e al loro interno: condizioni ambientali, socio-economiche e sanitarie diverse, a volte anche in ambiti geografici ristretti, unite a impatti molto diversi dei cambiamenti climatici, costituiscono un potentissimo motore di diseguaglianze, ingiustizie e instabilità. D’altra parte le migrazioni non sono lo specchio di tutto ciò?

Anche in Italia il cambiamento climatico sta già influenzando la salute in modo non trascurabile e differenziato: le ondate di calore comportano un carico crescente di mortalità e morbilità e già nel 2015 il 2-3 per cento dei decessi totali osservati era attribuibile all'esposizione al calore.

Sacrifici di chi e per cosa?

Anche in aree circoscritte gli studi su ambiente e salute hanno fatto passi da gigante e, come succede per i siti di bonifica, documentano aree molto più impattate e fragili di altre nel nostro paese e nelle nostre regioni, con milioni di persone più vulnerabili. 

Nel Rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu (12 gennaio 2022) è stato per la prima volta coniato il concetto di “zona di sacrificio”. Tali zone (luoghi molto inquinati e pericolosi, con violazioni dei diritti umani, in particolare delle popolazioni povere, vulnerabili ed emarginate) «rappresentano la peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile».  Anche su questo piano è doveroso chiedersi chi, quanto a lungo e per che cosa?

All’homo sapiens, che sembra sempre più dedito al fare (homo faber) a tutti i costi, occorre un sovrappiù di consapevolezza e di riflessione sulle conseguenze del proprio agire e non agire, sostituendo alla vaga speranza che il bene si compia, una sana paura che si compia il danno, perché si faccia strada una nuova responsabilità rivolta alla tutela e alla cura dell’altro.

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