Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale e questa settimana celebriamo la protezione dell’ambiente e della biodiversità nella Costituzione italiana. Una vittoria politica e culturale che ha quasi lasciato spiazzati, perché non siamo abituati alle buone notizie e invece le buone notizie vanno, appunto, celebrate. Per il resto vi lascio all’analisi di Pier Luigi Petrillo, che potete leggere qui. Noi cominciamo e parliamo di un’altra vittoria.

Cosa ci insegna la storia di Save the whales

L’Islanda, uno dei tre paesi che ancora la praticano (gli altri due: Giappone e Norvegia) programma di mettere fine alla caccia alle balene nel 2024, sostanzialmente perché questa pratica ormai non ha più alcun senso commerciale o economico. Le quote annuali 2019-2023 permettono di uccidere 209 balenottere comuni e 217 balenottere minori, ma negli ultimi anni soltanto una balenottera minore è stata effettivamente cacciata.

I due più grandi possessori di licenza hanno sospeso le attività, è anche uno degli effetti del ritorno in attività delle baleniere giapponesi nel 2019: il Giappone è rimasto l’ultimo grande mercato per questo tipo di carne e gli islandesi hanno smesso di essere competitivi. Perché ve ne parlo? Per guardare al disegno più ampio, che, appunto, ci porta a discutere di attivismo, di successi e di conquiste.

Save the Whales è una delle grandi storie dell’ambientalismo del secolo scorso, la prima battaglia ecologica globale combattuta e vinta. (Vinta non per sempre, perché ogni conquista va vigilata e sorvegliata, vinta non in modo perfetto, perché nessuna lo è, ma comunque: vinta).

Per creare un movimento così forte ed efficace servono tanti elementi, informazione, comunicazione, impegno e simboli. Il simbolo più potente ce lo regalarono le balene stesse: la loro voce.

Songs of the Humpback Whale è un album uscito nel 1970, lo stesso anno di Led Zeppelin III, All Things Must Pass di George Harrison, After the Gold Rush di Neil Young. In Italia c’era Mina in testa alle classifiche. E poi uscì questo stranissimo disco, prodotto da un biologo marino di nome Roger Payne, che aveva registrato con un idrofono qualcosa che trovava estremamente commovente: i canti delle megattere che ascoltava al largo di Bermuda. Fu un successo gigantesco, multi-platino, la più famosa registrazione animale nella storia della musica, ci è piaciuto così tanto che nel 1977 lo abbiamo spedito anche nello spazio, dentro il Golden Record della sonda Voyager.

Era qualcosa di toccante e scientificamente rilevante, perché quelli non erano richiami, erano proprio canzoni, erano arte, alcune avevano la forma della sonata, le balene conoscevano artifici mnemonici come le rime. E contemporaneamente, quegli stessi animali venivano massacrati globalmente e spinti sempre più verso l’estinzione.

Un anno dopo l’uscita di Songs of the Humpback Whale nacque un’organizzazione che forse avete sentito nominare: Greenpeace. Nel primo decennio di attività, la lotta per le balene divenne una delle loro attività principali, quattro anni dopo la fondazione iniziarono la pratica di disturbo delle navi baleniere, cominciando dalla russa Dalniy Vostok, un macello galleggiante per capodogli.

All’epoca si sapeva ancora poco delle pratiche della caccia commerciale alle balene, c’erano poche immagini, poche notizie, era un’industria remota che agiva in luoghi remoti, con pochi testimoni. E il lavoro di Greenpeace e poi di Sea Shepherd (fondata da Paul Watson, una specie di spin-off polemico e radicale) fu fondamentale nel raccontare e documentare cosa stavamo facendo ai cetacei artisti dei quali compravamo il disco per rilassarci o commuoverci.  

Foto Greenpeace

Le balene, con tutto il loro carisma e la vicinanza umana che riuscivamo a percepire, la loro capacità di costruire legami, famiglie, arte, musica, addirittura culture e dialetti, divennero un simbolo molto facile da riconoscere del nostro rapporto tossico con la biodiversità.

Servivano a quel punto solo le parole per dirlo, qualcosa di semplice e infinitamente replicabile, come lo swoosh della Nike (curiosamente nato proprio in quel periodo, nel 1971) e la prima a pronunciarle fu una ragazzina. Maris Sidenstecker, nel 1974. Aveva letto un articolo su un giornale ed era rimasta sconvolta. Così disegnò una maglietta con delle parole molto semplici: Save the Whales. Ogni movimento ha bisogno di una bandiera e quella divenne la bandiera di chi voleva proteggere le balene. Poi Sidenstecker è diventata una biologa marina e oggi gestisce la fondazione Save the Whales, perché il destino è destino.

Gli anni Settanta furono un decennio intenso, ma nel 1982 la International Whaling Commission decise una moratoria internazionale per la caccia commerciale alle balene, che sarebbe entrata in vigore dal 1986. Ci sono state eccezioni, cadute, errori, vergogne, non è accaduto tutto istantaneamente, ma così cambiò il corso di quella storia, perché era cambiata la sensibilità globale, a partire dall’attivismo, dalle canzoni e da tre parole: save the whales.

Le megattere nel 2020 erano tornate al 93 per cento della popolazione prima dell’inizio della caccia su larga scala. Non sono al sicuro, e non è la poca caccia residua a minacciarle, ma il terrificante inquinamento da plastica, le collisioni con le navi, addirittura il rumore che immettiamo negli oceani. Però, insomma, questa è una storia che contiene lezioni che meritano di essere ricordate.

Trent’anni di legge sulla caccia: e ora?

Visto che siamo in tema, venerdì 11 febbraio cadevano i trent’anni della legge italiana sulla caccia, la 157 del 1992, entrata in vigore l’11 febbraio di quell’anno. Il WWF ha fatto un ottimo lavoro di comunicazione e divulgazione su questo argomento, a partire da un sondaggio (effettuato da EMG Different).

La sensibilità, anche in questo caso, è cambiata: il 76 per cento degli italiani la considera una pratica non giusta, il 72 per cento teme i rischi per la sicurezza dei cittadini (e fanno bene, visto che negli ultimi dieci anni sono morte 200 persone in incidenti di caccia) e il 57 per cento quelli per la salute.

Eppure la situazione è cristallizzata, nonostante il fatto che i cacciatori stessi siano una specie lentamente in via di estinzione, dall’età media sempre più alta, 400mila persone, un quarto di quelli che erano decenni fa. Ma sono ancora un gruppo sociale compatto ed estremamente tendente all’attività di lobby e di pressione politica, soprattutto al livello di amministrazione pubblica che in Italia ha competenza esclusiva sull’argomento: le regioni. I cacciatori sono un bacino di voti di interesse e per questo tendono a essere accontentati.

Su cosa? Sulle deroghe alle specie da cacciare, sui calendari venatori, sulle norme regionali. Secondo l’analisi di WWF, dal 2002 al 2021 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime almeno due leggi regionali all’anno, per violazione dello standard minimo di tutela ambientale.

Le regioni più propense a dire di sì ai cacciatori? Liguria, Lombardia, Veneto. Ogni anno il 90 per cento dei calendari venatori regionali sono giudicati illegittimi, perché si aprono troppo presto o chiudono troppo tardi. A danno degli animali, ovviamente. È un continuo corpo a corpo tra legalità e cacciatori, che conquistano spazi ben oltre quelli che sarebbero definiti dalla legge che ha compiuto trent’anni e che forse andrebbe aggiornata o resa più efficace.

Ci sono problemi di governance, perché la retorica del cacciatore come custode dell’ambiente e del bosco, categoria con un diritto all’autogestione, è forse la parte più problematica di tutta questa storia. E non solo per le immissioni di specie per «pronta caccia» (fagiani, lepri, senza dimenticare il disastro causato decenni fa con i cinghiali), ma anche per la resistenza a evitare l’inquinamento da piombo usando proiettili atossici, o per il confine con l’illegalità, visto che il il 77,8 per cento dei reati di bracconaggio viene commesso da cacciatori con licenza e solo il 19 per cento da quelli che potremmo definire bracconieri puri.

In Italia vengono uccisi illegalmente 5 milioni di uccelli, è un massacro per quelli migratori che sono costretti a passare dall’Italia per le loro rotte. Siamo il paese che nel bacino Mediterraneo ne uccide di più dopo l’Egitto.

Ciclicamente si discute di abolizione della caccia e di un nuovo referendum, dopo il fallimento di quello voluto dai Verdi trent’anni fa. Anche senza arrivare a una battaglia così radicale, la norma ha bisogno di una messa a punto, sia per il suo cattivo funzionamento, che per il cambiamento nella sensibilità pubblica raccontato dal sondaggio, e forse anche per essere più in linea con una Costituzione che da questa settimana promette di tramandare ambiente e biodiversità alle prossime generazioni, e non si capisce come possa farlo un paese che permette di cancellare dalla fedina penale con un’oblazione di mille euro l’uccisione di specie estremamente protette come aquile o lupi.

Una misura del greenwashing

Un nuovo rapporto Climate Corporate Responsibility Monitor 2022 di New Climate Institute in collaborazione con Carbon Watch ci ha dato una misura precisa di cosa intendono le aziende quando parlano di net zero, di azzeramento delle emissioni.

Per arrivare a zero, logica vuole che debbano tagliare il 100 per cento delle proprie emissioni, ma, analizzando i bilanci di sostenibilità di alcuni tra i più grandi brand al mondo, l’organizzazione tedesca ha verificato che quando dicono 100 per cento in realtà intendono al massimo 40 per cento, e tutto il resto sono calcoli forzati o manomessi e affermazioni scritte e comunicate per fuorviare i consumatori e i cittadini.

In una parola, la differenza tra il 40 per cento di tagli che sono nella realtà e il 100 per cento delle promesse è quello che più comunemente chiamiamo greenwashing. Niente che ci aiuterà a rispettare i parametri dell’accordo di Parigi o a contenere l’aumento delle temperature entro limiti sostenibili per la vita umana.

Il rapporto di New Climate Institute definisce «integrità» l’aderenza di queste 25 aziende ai propri stessi piani e promesse e misura questa aderenza su una scala che va da «high integrity», la performance migliore, a «very low integrity», la performance peggiore.

Non tutto è da buttare via. È vero, non c’è nessuna azienda che riesca ad apparire nella categoria di massima integrità, ma già al secondo livello («ragionevole integrità») troviamo il gigante dello shipping Maersk, ed è una buona notizia, visto l’impatto di questo settore sulle emissioni. Tra i punti di maggior merito della compagnia danese ci sono la riduzione delle emissioni del 70 per cento all’interno dei terminal portuali e la scelta di mettere in navigazione otto navi carbon neutral a partire dal 2024.

Tra le aziende che riescono a tenere fede alle proprie promesse («integrità moderata») ci sono Sony, Apple e Vodafone. Sotto questa linea iniziano le cattive performance, che includono brand molto noti come Google (nonostante il suo impegno sulle rinnovabili), IKEA (che aveva fornito i mobili di COP26), Accenture, BMW, Nestlé, Novartis.

In una nota, Thomas Day, il curatore del report per conto di New Climate Institute, ha scritto: «Cercavamo di raccontare il maggior numero possibile di buone pratiche, ma siamo stati francamente sorpresi e delusi di scoprire quanto fosse bassa l’integrità complessiva di tutte queste affermazioni. Mentre il clima cambia e la pressione su queste aziende cresce, le promesse che catturano i titoli e suonano così ambiziose mancano alla fine di vera sostanza e possono essere fuorvianti per i consumatori e i regolatori».

Tra le pratiche più criticate c’è il cosiddetto carbon offsetting, l’esternalizzazione delle emissioni attraverso progetti di compensazione i cui effetti sono tutti da dimostrare, soprattutto nel lungo termine, e qui parliamo della grande corsa di ogni azienda a piantare il maggior numeri di alberi possibile. Il loro ruolo di assorbimento non può sostituirsi a un vero taglio delle emissioni, anche perché le foreste sono esse stesse vittime della crisi climatica, per disturbi da vento, incendi, parassiti. Ogni volta che un albero va in fumo le emissioni assorbite e compensate vengono restituite all’atmosfera, ma a quel punto chi le conterà più?

Tra le altre scelte discutibili, comuni alla maggior parte dei report sostenibilità analizzati da New Climate Institute, c’è il mancato conteggio delle emissioni che si verificano quando il consumatore utilizza i prodotti delle aziende, le cosiddette emissioni scope 3, che in molti settori arrivano fino al 70 per cento del totale.

Il rapporto si legge qui.

Link finali prima dei saluti

Stiamo arrivando verso la fine di questo numero di Areale, vi segnalo qualche lettura interessante.

Foreign Policy scrive dell’enorme problema di giustizia sociale e climatica che c’è nello sfruttamento minerario e nell’estrazione di metalli critici per la transizione energetica, con proteste che negli ultimi mesi si sono viste dal Cile agli Stati Uniti, passando per Serbia e Portogallo.

Quello dei metalli critici è uno dei nodi più difficili da sciogliere. Come forse sapete, o forse no, sto scrivendo una serie di articoli per Domani su questo argomento, saltando da un punto all’altro della tavola periodica, per raccontare conflitti, geografie, prospettive sui materiali della transizione.

Finora sono usciti litioterre rarecobalto.
Se li avete letti o li leggerete fatemi sapere cosa ne pensate.

Il Guardian ha scritto dei tipping point dell’attivismo ed è un buon complemento a quanto scritto su Costituzione e balene. Sono i piccoli momenti che innescano grandi cambiamenti, come quando i membri della pop band A-ha fecero partire una protesta sulle auto elettriche in Norvegia (a partire da una Panda riconvertita, storia bellissima) e da lì gettarono le basi per l’impressionante penetrazione dell’elettrico nel paese.

I saluti

È tutto, per questa settimana. Sto per iniziare a leggere Lo stato del mare, di Tabitha Lasley (NR) e sembra davvero promettente, ho una grande voglia di rivedere Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, mi sembra giunto il momento. Se avete consigli, suggerimenti e spunti su letture o visioni, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani: lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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