Possiamo posizionare l’inizio di questa storia su come le terre rare stanno indirizzando il mondo in almeno tre punti diversi. Il primo è il vostro smartphone. La prossima volta che ricevete una chiamata e si attiva la vibrazione, sappiate che è resa possibile da un magnete permanente fatto con tre membri del club terre rare: neodimio, terbio e disprosio. Senza di loro il telefono non vibra, non emette suoni, non si illumina e non funziona il touch screen.

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi metallici della tavola periodica che sono accomunati dalle stesse proprietà chimico-fisiche e che si possono trovare in quasi tutto ciò che abbia un contenuto tecnologico, dagli smartphone ai missili, e in più hanno un ruolo fondamentale nella produzione di auto elettriche e turbine eoliche. Sono quindi l’ingrediente necessario sia dell’economia del presente sia di quella del futuro.

Isole contese

Il secondo inizio di questa storia è nel 2010, quando un peschereccio cinese e una nave della guardia costiera giapponese si scontrarono nei pressi di un gruppo di isole contese che i cinesi chiamano Diaoyu e i giapponesi Senkaku.

Il capitano cinese finì nelle mani dei giapponesi e la Cina forzò lo stallo bloccando di colpo l’esportazione di terre rare, sulle quali in quella fase aveva il controllo del 93 per cento della produzione. Da quel momento fu chiaro che per Pechino le terre rare sono contemporaneamente un business e una leva, un modo per tenere le mani sul collo di qualsiasi rivale industriale e geopolitico.

Il terzo inizio di questa storia è uno dei picchi di comicità involontaria raggiunti da Donald Trump durante la sua presidenza, quando propose di acquistare la Groenlandia, territorio autonomo del regno di Danimarca, provocando più imbarazzo che fastidio diplomatico. Se ne uscì così perché qualcuno gli aveva detto che un modo per togliersi le mani cinesi dal collo potevano essere le riserve di terre rare dell’isola artica e lui era pronto a tirare fuori l’assegno. Come vedremo, non sarebbe comunque servito a molto.

La scarsità economica

Quella delle terre rare è la storia di una dipendenza. Niente di quello che sappiamo fare di avanzato oggi si può fare senza attingere a questo mercato relativamente piccolo, poco trasparente e in gran parte in mano alla Cina.

Le terre rare non sono rare, ma è raro quello che fanno ed è molto difficile estrarle, perché si presentano poco concentrate. «La loro scarsità non è geologica, ma economica, la capacità di sfruttare la risorsa in modo economicamente profittevole su scala industriale», spiega Alberto Prina Cerai, consulente e analista di questo mercato.

E nessuno ha giocato questa partita in modo diretto e previdente quanto la Cina. Pechino aveva una eccellente base di partenza (circa il 37 per cento delle riserve), ma alla fine degli anni ’70 l’estrazione era in buona parte in mano agli americani.

Gli Stati Uniti però iniziarono a dismettere le miniere, per i loro costi ambientali e sociali, mentre la Cina iniziava a visualizzare il loro ruolo nel futuro. Si cita spesso Deng Xiaoping: «Il Medio oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare».

Dice Alessandro Trovarelli, docente dell’Università di Udine e studioso del settore: «Negli anni ’80 e ’90 la Cina ha potuto approfittare sul mercato del lavoro meno regolato e della libertà di ignorare i problemi ambientali. Mentre il mondo occidentale abbandonava le miniere, loro ne aprivano e nel giro di dieci anni hanno avuto il controllo di estrazione e produzione».

La dipendenza da terre rare

Nel frattempo la dipendenza da terre rare è diventata assoluta: non solo le auto elettriche, i telefoni, gli impianti eolici. Ci sono terre rare negli schermi lcd dei televisori, nell’agente di contrasto delle risonanze magnetiche, nella robotica, nei droni, nelle armi intelligenti.

L’industria americana importa l’80 per cento delle terre rare dalla Cina. L’Europa più del 90 per cento. Dipende ovviamente dal settore, ma nella gran parte dei casi il formato con cui arrivano alle nostre fabbriche è quello dei magneti permanenti. «È questo il vero vantaggio della Cina», conferma Prina Cerai: «il controllo verticale di quello che succede dopo la miniera, la produzione di questi magneti permanenti, elementi abilitanti per moltissimi tipi di manifattura». In pratica, senza magneti permanenti cinesi fatti con terre rare spesso cinesi non si fa ormai quasi niente.

È per questo motivo che la strategia di Unione europea e Stati Uniti è volta a ridurre questa dipendenza. Gli Stati Uniti hanno invertito la tendenza decennale e sono tornati a scavare. Nel mondo della transizione energetica e delle industrie ad alto valore tecnologico non c’è niente di importante come una ottocentesca miniera.

L’industria estrattiva

Queste miniere però non sono diventate meno ambientalmente impattanti di quando si decise di chiuderle: per un livello processabile industrialmente bisogna estrarre fino a venti volte la quantità, per lavorarle c’è un ampio uso di solventi chimici che in Cina hanno creato un inquinamento tossico su larga scala.

Accanto a quella di Baogang, in Mongolia interna (una regione cinese), l’estrazione e la lavorazione hanno creato uno scenario distopico. «La Cina sta rallentando sulla parte dell’estrazione, per esplorare miniere all’estero, in Myanmar o in Africa, per tenersi la parte della filiera più a valore aggiunto», racconta Prina Cerai. Mentre noi apriamo miniere, in Cina hanno creato così tanto valore industriale a valle del processo che le miniere in sé possono iniziare a chiuderle.

L’Unione europea ha risposto con la European Raw Materials Alliance (Erna), un progetto da 1,7 miliardi di euro per promuovere e costruire un’industria regionale «dalla miniera al magnete». Siamo però molto indietro. Sono in corso valutazioni geologiche per riserve trovate in Spagna, Svezia, Finlandia, c’è la Groenlandia, dove però alle elezioni del 2021 ha vinto il partito contrario alle miniere.

Per ora abbiamo una sola struttura industriale di separazione delle terre rare, in Estonia, pochissimi costruttori di magneti, il più importante in Germania.

L’incidenza dell’elettrificaizione

Nel frattempo l’elettrificazione continuerà a far volare la domanda. Per capirci, il 95 per cento dei motori elettrici contengono terre rare, nel 2019 il loro utilizzo era di 5mila tonnellate all’anno, nel 2030 sarà di 70mila. La forbice tra quello che abbiamo e quello che ci serve rischia di allagarsi sempre di più, nonostante gli sforzi per ridurla.

L’Europa e gli Usa hanno un problema simile, ma la stanno affrontando con due approcci diversi, e c’entra la varietà di utilizzi che hanno questi metalli, dall’elettrificazione ai missili, dove a un occhio europeo colpisce di più l’elettrificazione e a uno americano di più i missili.

Lo spiega Sophia Kalantzakos, docente di Environmental Studies alla New York University e autrice del libro Terre rare: La Cina e la geopolitica dei minerali strategici (Bocconi Editore). «Per gli Stati Uniti è un problema di sicurezza nazionale, e questo ha reso l’approccio nei confronti della Cina molto muscolare, mentre l’Unione Europea ha un’idea più olistica, legata alla diversificazione e alla resilienza, senza voler rompere con la Cina, anche perché le terre rare servono a fare le auto elettriche, ma poi dovremo anche venderle alla Cina, no? L’interconnessione del mondo non è reversibile».

La strategia europea

Alla base della European Raw Materials Alliance c’è la ricerca di opzioni alternative, per renderci meno vulnerabili a questa dipendenza cinese, ma senza le forzature americane sulla costruzione di una filiera completamente autonoma. Al Congresso è addirittura in discussione una legge per vietare ai contractor militari l’uso di terre rare cinesi.

Una parte della strategia europea viene dall’economia circolare, e quindi dal riciclo della risorsa, ma è una prospettiva più limitata e complessa che nel caso del litio. Il secondo è la ricerca di nuovi partner internazionali per le forniture della materia grezza, cercando allo stesso tempo di potenziare l’industria di lavorazione nell’Unione. Il terzo riguarda l’estrazione mineraria in senso stretto, come negli Stati Uniti. Questa però è una conversazione politica difficile, e riguarda tutti i materiali critici della transizione energetica.

Lo dice anche Kalantzakos. «Abbiamo spedito in passato l’attività mineraria nei paesi in via di sviluppo, è difficile pensare che possano tornare nel nostro cortile, in un continente dove non si riesce nemmeno a capire cosa fare ambientalmente con i rifiuti. D’altra parte non possiamo continuare a usare i paesi in via di sviluppo come un buco da scavare, come si faceva in epoca coloniale».

È un dilemma che aleggia su tutta la transizione energetica e la sua fame di metalli critici: per come è disegnata ora, ridurrà l’impatto sull’atmosfera, ma non l’utilizzo delle risorse della Terra. 

© Riproduzione riservata