Ha fatto e rifatto più e più volte i conteggi. Inizialmente il risultato sembrava sbagliato, ma ora è certa che non lo è. Luciana Gatti dell’Instituto de Pesquisas Energéticas e Nucleares (Ipen) è sicura: l'Amazzonia, la più grande foresta pluviale del mondo, il “polmone della Terra per antonomasia”, un mondo su cui l'umanità conta per sottrarre la maggior quantità di anidride carbonica dall’atmosfera, ha cambiato modo di agire: ora sta per emettere più carbonio di quanto ne assorbe.

Disperso su gran parte del Sud America il bacino amazzonico è una delle più grandi lande selvagge del mondo, un luogo in cui la vita brulica nel calore dei tropici, alimentato da una miriade di fiumi che attraversano la giungla. Tra le fronde lussureggianti di quegli alberi vivono più di tre milioni di specie viventi ed erano e sono proprio quelle piante che assorbivano e assorbono ancora enormi quantità di carbonio attraverso la fotosintesi.

Negli ultimi sessant’anni l’uomo ha incrementato le emissioni di anidride carbonica di quasi il 50 per cento, tant’è che negli ultimi due o tre anni ne ha emessa fino a 37 miliardi di tonnellate all’anno. Due miliardi di tonnellate però venivano sottratte proprio dalla foresta amazzonica. Mentre aumentavano le emissioni di anidride carbonica si distruggeva la foresta per far posto ad allevamenti di bestiame e terreni agricoli. Gatti, che lavora anche presso l'Agenzia Spaziale Nazionale del Brasile, negli ultimi anni ha monitorato la quantità di carbonio emessa e assorbita dalla regione, non pensando certo che la distruzione della foresta possa portare l'Amazzonia ad un “punto di svolta”, che la vedrebbe trasformarsi in savana. Insieme a Gatti altri ricercatori affermano che superare quel punto sarebbe catastrofico: invece di aiutare a frenare il cambiamento climatico, l'Amazzonia lo accelererebbe improvvisamente. Il crollo delle precipitazioni farebbe morire in massa i suoi alberi, rilasciando nell'atmosfera fino a un decennio di emissioni mondiali di carbonio, così da condannare i nostri sforzi (se ci saranno) per mantenere il riscaldamento globale vicino a un limite vivibile.

I risultati degli studi di Gatti sono stati pubblicati sulla rivista Nature. E parlano chiaro: l’Amazzonia è già diventata un emettitore di carbonio. Le ricerche si basano su studi eseguiti dal 2010 al 2018, un periodo che ha visto una crescita sconsiderata dell’agrobusiness e dell’estrazione mineraria. «Stiamo uccidendo l'Amazzonia. E questo non è qualcosa che i nostri modelli climatici hanno delineato per il futuro, in realtà la situazione è già presente», afferma Gatti. «L'Amazzonia è diventata una fonte di carbonio molto prima di quanto si pensasse. Ciò significa che raggiungeremo anche lo scenario dell'orrore molto prima».

Sotto Jair Bolsonaro, la deforestazione nell'Amazzonia brasiliana è passata da una media di 6.500 chilometri quadrati all'anno nel decennio precedente a circa 10mila, un'area quasi grande quanto l’Abruzzo. Secondo Gatti siamo in bilico sull'orlo che porta alla transizione, se non siamo già caduti all’interno di essa e non ce ne stiamo ancora accorgendo, almeno per una parte dell'Amazzonia, ha spiegato al New Scientist. Basti andare nell’'Amazzonia sudorientale per capire quello che spiega Gatti. Lì infatti, le testimonianze della foresta pluviale sono davvero poche. Sembra infatti, di essere nel Far West: ci sono cowboy, con tanto di stivali con speroni e fibbie di cintura fuori misura, città polverose piene di negozi di forniture agricole e chiese evangeliche, cartelloni pubblicitari che pubblicizzano aste di bestiame e rodei, e alcune di esse accolgono i visitatori con la dichiarazione: "La nostra città sostiene Bolsonaro".

Secondo Gatti l'Amazzonia raggiungerà il punto di svolta quando il 20-25 percento di essa sarà deforestato. Attualmente siamo al 15 per cento, rispetto al 6 per cento del 1985. Ovviamente la colpa per lo stato degradato dell'Amazzonia va oltre Bolsonaro e il Brasile. Gatti sostiene che il mondo intero ha responsabilità. «I governi dovrebbero vietare le importazioni brasiliane», dice Gatti. «Se vuoi proteggere l'Amazzonia, smetti di consumare i prodotti che ne alimentano la distruzione».

La doccia al nucleare

La Russia sta riscaldando l’acqua di una remota città siberiana grazie ad una centrale nucleare galleggiante. Il riscaldamento nucleare residenziale è stato introdotto nella comunità portuale artica di Pevek, che possiede 4.500 abitanti, sfruttando il calore che si produce da due centrali nucleari poste su una nave, la Akademik Lomonosov, ormeggiata nell'Oceano artico. Il sistema è stato sviluppato dalla compagnia nucleare statale russa Rosatom.

L’acqua viene riscaldata utilizzando il calore che viene scaricato sotto forma di vapore attraverso le torri di raffreddamento degli impianti di fissione nucleare della chiatta, che altrimenti andrebbe sprecato. Le due unità nucleari poste sulla nave producono ciascuna 32 MW che vengono immessi nella rete elettrica regionale Chaun-Bilibino. Alcuni esperti ritengono che il sistema, se applicato su vasta scala, potrebbe aiutare a ridurre i cambiamenti climatici riducendo l'uso di centrali che emettono gas serra come carbone e gas, e aziende negli Stati Uniti, in Cina e in Francia stanno ora valutando la costruzione di reattori simili. 

Oltre alle case di Pevek, anche il bagno turco comunitario della città “sarà a propulsione nucleare”. E l’energia potrebbe essere sufficiente anche per riscaldare serre o fornire calore per scopi industriali.  «È molto eccitante», ha detto al New York Times Jacopo Buongiorno, professore di scienza e ingegneria nucleare al Massachusetts Institute of Technology (Mit). «La decarbonizzazione della rete elettrica richiede molte “cose del genere” altrimenti non si raggiungeranno gli obiettivi. Ovviamente questo non funzionerà se le persone non si sentono a proprio agio con la tecnologia».

Nonostante i possibili rischi, i residenti di Pevek hanno per lo più accolto favorevolmente il nuovo impianto, secondo il New York Times, il che è una fortuna visto che per loro è quasi l’unico modo per avere acqua calda in casa soprattutto in inverno. Maksim Zhurbin, vicesindaco di Pevek, ha detto che nessuno dei residenti della città si è lamentato durante le udienze pubbliche prima dell'arrivo della nave nucleare. «Abbiamo spiegato alla popolazione cosa sarebbe successo e non ci sono state obiezioni», ha detto. I lavori per collegare la chiatta con la città sono durati più di un anno. Come per alcuni reattori nucleari ciascuno dei due a bordo della nave possiede un circuito d'acqua che viene riscaldato dalla fissione nucleare, il che lo rende radioattivo. Non lascia mai l'impianto, ma viene continuamente riciclato. Un secondo circuito d’acqua preleva il calore dal primo e lo trasferisce ad altri circuiti. Uno di questi circuiti è il sistema di tubi che escono dall'impianto, si diramano e forniscono acqua calda alle case dei residenti di Pevek. Nonostante le numerose critiche fatte da varie associazioni ambientaliste la centrale è stata progettata perché non si ripeti una Chenrnobyl dell’Artico: può resistere ad un aereo (di piccole dimensioni) che vi precipiti sopra, presenta un “vaso di contenimento” in caso di fuga di radiazioni (è la nave stessa) e un sistema che impedisce ad eventuali fughe d’acqua contaminata di arrivare alle case di Pevek. Sebbene l'energia nucleare sia considerata un'energia pulita, la sua inclusione nell'elenco delle energie rinnovabili è oggetto di dibattiti a non finire. Tra l’altro il materiale utilizzato nelle centrali nucleari – l'uranio – non è rinnovabile. 

Quanto aumenterà la temperatura in Italia?

Il 2020 è stato un anno prevalentemente caldo in Italia, con condizioni di siccità estese a tutto il territorio nazionale, soprattutto nei primi mesi dell’anno. Eventi meteorologici estremi hanno interessato diverse aree del nostro paese. Questi sono alcuni dati estratti dal XVI Rapporto Gli indicatori del clima in Italia, realizzato dall’Ispra in collaborazione e con i dati del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente.

Entrando nello specifico si scopre che mentre a scala globale sulla terraferma il 2020 è stato l’anno più caldo della serie storica – con un’anomalia di +1.44° C rispetto al valore climatologico di riferimento 1961-1990 – in Italia è stato il quinto anno più caldo dal 1961, ma ha registrato un’anomalia media di +1,54° C. Ad eccezione di ottobre, in tutti i mesi del 2020 la temperatura media in Italia è stata superiore alla norma, con un picco di anomalia positiva a febbraio (+2,88°C), seguito da agosto (+2,49°C). La stagione relativamente più calda è stata l’inverno, che con un’anomalia media di +2,36°C, si colloca al secondo posto della serie storica. Per quanto riguarda la temperatura superficiale dei mari italiani, il 2020, con un’anomalia media di +0,95°C, si colloca al quarto posto dell’intera serie dal 1961. Si capisce come l’obiettivo di non superare l’1,5°C rispetto al periodo preindustriale per l’Italia vale ben poco, visto che è stato già abbondantemente superato. Quel che si spera è che la nostra regione mediterranea possa risultare un’anomalia nell’anomalia del pianeta in riscaldamento.

Nonostante un anno non particolarmente piovoso non sono mancati eventi di precipitazione intensa. I valori più elevati di precipitazione giornaliera sono stati registrati in occasione dell’evento alluvionale di inizio ottobre. In un’ampia zona del Piemonte settentrionale il 2 ottobre sono state registrate precipitazioni cumulate giornaliere comprese fra 400 e 500 millimetri; nella parte occidentale della Liguria e all’estremo confine meridionale del Piemonte si sono superati localmente i 350 millimetri di precipitazione. A far da contraltare ci sono state importanti siccità. Numerose sono state le aree con valori elevati del numero di giorni asciutti, superiori a 300 giorni, con punte di 341 giorni a Pescara e a Capo Carbonara (Su).

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