Ad accoglierci nella prima sala del padiglione internazionale della Biennale di Venezia, ai Giardini, è una grande elefantessa su un alto piedistallo cilindrico bianco che ci porta ad alzare lo sguardo come dinanzi a un monumento. Si tratta di una scultura del 1987 dell’artista tedesca Katharina Fritsch (quest’anno Leone d’oro alla carriera insieme alla cilena Cecilia Vicuña) realizzata dal calco di un elefante impagliato di nome Bibi, conservato al museo di Storia naturale di Bonn. L’impeccabile realismo che riprende l’animale in tutti i dettagli anatomici non contrasta con il suo colore verde, innaturale, che gli conferisce però un carattere surreale. Per quanto l’immagine dell’elefante ricorra nell’arte dalla preistoria, qui si trasforma in qualcosa di inaspettato: occupare la sala di apertura della mostra Il latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani, ce lo fa avvertire come uno spirito guida.

Sulla parete che impedisce di vedere cosa ci aspetta nella sala successiva troviamo un dipinto di piccole dimensioni di Marija Prymačenko, artista ucraina nata nel 1909 e, a quanto pare, apprezzata da Picasso, benché nota solo nel suo paese.

Idea ucraina

Un’artista naif alla Biennale di Venezia è un po’ una novità, che poi si tratti di un’artista nata all’inizio del secolo sorprende ancora di più, perché siamo abituati a pensare alla grande manifestazione veneziana come al palcoscenico ideale per presentare quanto di più nuovo si impone sulla scena internazionale.

Di sguardi al passato nelle precedenti edizioni ce ne sono stati diversi, certo, ma difficilmente ci si spingeva oltre gli anni Cinquanta e difficilmente questo tipo di pittura ha trovato posto. Si preferiva rimarcare l’importanza che i lavori di alcuni artisti considerati “maestri”, perlopiù rappresentati da gallerie influenti, andavano ancora considerati “attuali”.

Il fatto che Prymačenko fosse ucraina ci riporta alla realtà della guerra in corso. La sua opera, intitolata Scarecrow (spaventapasseri), un dipinto su carta del 1967 realizzato come si diceva con un segno naif, rappresenta una strana creatura ibrida, dai colori accesi, che emerge da uno sfondo scuro. Ha caratteristiche umane, animali e vegetali. La testa d’asino ha qualcosa di umano. La lingua è un fiore. Ha braccia e mani, ma le zampe posteriori sono quelle di un uccello. La coda è fatta di piume e fiori.

Dalla scheda che accompagna l’opera si apprende che Prymačenko, nata in un villaggio vicino Kiev, rifiutò i dettami del realismo socialista sovietico, preferendo ispirarsi ai racconti popolari ucraini. Si ammalò da giovane di poliomielite, sopravvisse alla carestia degli anni Trenta e alle conseguenze della Seconda guerra mondiale.

Attraversò il disastro di Chernobyl e morì nel 1997. Sempre dalla stessa scheda si apprende che nello scorso febbraio, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, molti suoi lavori conservati al Museo di Ivankiv sono andati distrutti sotto i bombardamenti.

Il suo nome e la sua opera non appaiono in catalogo, questo mi fa pensare che sia stata aggiunta in mostra a giochi fatti proprio in risposta alla violenza della guerra, che oltre a uccidere le persone rischia di cancellare anche l’arte. Trovo giusto aver dato una posizione simbolica privilegiata a questa piccola gouache su carta e alla narrazione che l’accompagna.

Proseguendo, si accede a una grande sala dove troviamo le opere di altre due artiste, Andra Ursuta e Rosemarie Trockel. La prima affronta temi legati al post umano, alla fantascienza, all’horror, la seconda è nota dagli anni Ottanta per quadri in cui la superficie pittorica è sostituita da una tessitura a maglia che si è portati a considerare il prodotto di una pratica artigianale femminile, ma che in realtà è realizzata con telai industriali.

Fuori dal cubo, dentro le capsule

Nello spazio della terza sala, circolare, si esce dall’idea del cubo bianco, luogo asettico che accoglie le opere senza interferenze. Le luci sono più basse, un tessuto spesso giallo ocra copre il pavimento. Anche le pareti virano allo stesso colore, che conferisce all’ambiente un’atmosfera calda.

Si ha la sensazione di essere entrati in un tempo diverso da quello delle sale immediatamente precedenti. Ci si ritrova così in uno spazio che la curatrice ha intitolato La culla della strega, la prima di cinque “capsule storiche”, ognuna delle quali è intesa come il punto di raccordo di un filone che ricollega, al proprio interno e all’interno dell’intera mostra, l’opera di artisti che hanno lavorato in periodi diversi su temi e con metodi affini.

Le altre capsule del tempo sono: Corpo orbita; Tecnologie dell’incanto, Una foglia una zucca un guscio una rete una rete una tracola una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore; La seduzione del cyborg. Il design delle capsule storiche, come quello dell’intera mostra, è concepito in collaborazione con Formafantasma.

Già all’interno della prima “capsula” appare evidente una marcata propensione a dare visibilità anche (e soprattutto) ad artisti poco conosciuti, agli outsider, tendenza che ritroveremo in tutta la mostra. Le opere di questa sezione sono di artiste surrealiste e, fatta qualche rara eccezione, antecedenti il 1948.

Si evidenzia il ruolo svolto all’interno del movimento da Leonora Carrington, Remedios Varo, Dorothea Tanning, Lee Miller e Meret Oppenheim, ma si accostano loro nomi poco conosciuti o scarsamente considerati anche dagli addetti ai lavori.

Nell’affrontare il tema, Alemani non si limita a porre l’accento sul fenomeno così come si affermò nella Parigi degli anni Venti e volge lo sguardo anche al nord Africa, al centro America e a paesi considerati periferici nell’ambito dell’arte moderna. Sempre Alemani ha precisato che l’interesse per le artiste surrealiste le è stato suscitato dalla mostra Fantastic women, tenutasi in Danimarca nel 2020 al Louisiana Museum di Humlebaek.

Il filo surrealista

Sidsel Meineche Hansen, veduta parziale dell'installazione. Foto  Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

Oltre a porre attenzione sulla presenza femminile nell’ambito del movimento surrealista, questa Biennale mette in evidenza quanto estesa in arte sia oggi la tendenza a scandagliare il mondo dei sogni, esplorare l’inconscio, dare immagine a desideri e paure, destabilizzare, infrangere le regole, immaginare un mondo nuovo, tutte attitudini che hanno permeato il surrealismo.

La forte impronta data dal surrealismo alla mostra è confermata del resto dal titolo, Il latte dei sogni, lo stesso di una raccolta di racconti per bambini scritti e illustrati da Leonora Carrington. Racconti tutt’altro che rassicuranti, segnati da metamorfosi, da identità instabili, da turbamenti psicologici che coinvolgono anche il corpo e che potrebbero fare da preludio alle inquietudini del post umano. 

Che l’interesse a esplorare l’universo surrealista e come questo si sia manifestato in diverse aree del mondo risponda a un’esigenza del nostro momento storico lo testimonia anche Surrealism Beyond Borders, mostra attualmente allestita Tate Modern Gallery di Londra (fino al 29 agosto), organizzata in collaborazione con il Metropolitan Museum of Art di New York.

Contestualmente anche al Guggenheim di Venezia va in scena una mostra di surrealisti. Ma con il suo progetto Alemani è andata oltre l’analisi storica affrontata dalle mostre che recentemente hanno focalizzato l’attenzione sul surrealismo, perché inserendo opere surrealiste e naif realizzate tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento nel contesto della Biennale di Venezia, ponendole cioè nel cuore di una rassegna che è considerata la vetrina del nuovo che avanza, le riconduce nell’ambito dell’attualità.

E qui occorre fare un passo indietro e ricordare che dagli anni Quaranta agli anni Settanta buona parte della critica, soprattutto quella americana, ha ritenuto che narrazione e simbolo portassero l’opera fuori dal modernismo. Si decretava in tal modo che nel secondo Novecento non c’era più spazio per il surrealismo, surclassato in primo luogo dal ben più “moderno” espressionismo astratto e, in ultima istanza, dalle diverse forme, anch’esse dominanti, di concettualismo e minimalismo, non simbolici e non narrativi.

Come sono andate le cose da allora è noto: nonostante si fossero sviluppate tendenze diverse e in contrasto tra loro, la critica si è concentrata principalmente su determinati filoni, arrivando a sostenere che il susseguirsi logico e progressivo di un’espressione artistica dopo l’altra.

L’arte invece è andata per la sua strada, o meglio, per le sue strade, come ben testimoniano i dipinti figurativi di Paula Rego (Lisbona 1935), alla quale sono state giustamente dedicate due sale. Narrativi e simbolici, i suoi dipinti, le sue sculture e i suoi disegni raccontano scene domestiche che trasudano violenza fisica e psicologica.

Oggi sappiamo che la scena dell’arte è stata ben più variegata di quanto abbia sostenuto la parte dominante della critica, sappiamo che il figurativismo non è venuto mai meno nelle sue diverse articolazioni, che vanno dal realismo al fantastico, proponendo sia visioni che l’autore vorrebbe oggettive sia visioni oniriche, deliranti e financo orrifiche.

C’è voluto del tempo perché si arrivasse a questa piena consapevolezza. Katharina Fritsch, per esempio, ha raccontato che quando nel 1987, poco più che trentenne, espose per la prima volta il suo elefante al museo d’arte contemporanea di Krefeld, nel vederlo tra le opere minimaliste in mostra, avvertì la follia di quella scelta. Una sana follia, ovviamente. Non c’è nella sua opera nessuno spirito surrealista, la cifra espressa è semmai quella del surreale, che è ben altra cosa.

Deformazione dei corpi

Sidsel Meineche Hansen, Daddy Mould, 2018 Industrial cast in two parts made from fibreglass, resin and vaseline. Foto Roberto Marossi - Courtesy La Biennale di Venezia

È surreale anche il post umanesimo, in quanto dà immagine a qualcosa che non appartiene al mondo dei sogni o all’inconscio, ma esprime una situazione reale, per quanto sorprendente o insolita. Riguarda condizioni della vita che sembrano fantascientifiche mentre sono già realtà concrete o in fieri.

Particolarmente significativa in tal senso è l’opera della quarantunenne danese Sidsel Meineche Hansen che nel suo video Maintenance, realizzato in collaborazione con Therese Henningsen, mostra la preparazione, in una casa di piacere tedesca, di una bambola di silicone che viene vestita in modo da soddisfare le fantasie degli clienti.

Il video mette in evidenza il peso che può assumere sulla psiche l’illusione di accoppiarsi con il corpo di una donna idealizzato ma che di umano ha solo l’aspetto. L’installazione di Sidsel Meineche Hansen alla Biennale comprende anche Daddy Mould (2018), lo stampo vuoto in vetroresina di una sex doll in silicone e Untitled (Sex Robot) (2018–2019), una marionetta snodabile di legno.

Per quanto l’opera di questa artista tenda a scandagliare l’ambito dei desideri, a studiare la psiche di chi pensa di infrangere le regole attraverso il cyborg, immaginando un mondo che risponde alle proprie fantasie, siamo ben lontani dall’universo dei surrealisti. Queste tematiche attengono invece al surreale, perché riguardano il mondo reale, vissuto come se fosse un surrogato di sé sesso.

Nelle opere di giovani artisti come Jana Euler (Friedberg 1982), Prabhakar Pachpute (Satri, India 1986), Giulia Cenci (Cortona 1988), Raphaela Vogel (Norimberga, 1988), Christina Quarles (Chicago 1985) – molti altri se ne potrebbero fare – l’elemento fantastico e il surreale si manifestano nella deformazione dei corpi, in situazioni improbabili non prive di suggestioni che derivano da Salvador Dalì, il cui lavoro fa capolino tanto nel dipinto presentato dall’indiano Prabhakar Pachpute quanto nella scultura del 2022 della norvegese Raphaela Vogel, che a Venezia presenta Können und Müssen (Ability and Necessity), otto bianche giraffe con il corpo bucato di elastomero di poliuretano.

Come fossero renne che trainano una slitta, le giraffe trascinano il modello anatomico di un grande pene, con i suoi testicoli su cui sono appuntate targhette che riportano le possibili patologie dell’apparato genitale maschile.

È in odore di surrealismo anche Louise Bonnet (Ginevra, 1970), le cui raffigurazioni di corpi distorti lasciano affiorare tensione psicologica e profondo disagio, pulsioni e ansie inconsce. La sua è una pittura colta che attinge tanto alla storia della pittura antica quanto al fumetto underground di Robert Crumb, tanto ai corpi distorti e al gigantismo di Siqueiros quanto alle sculture di bambole di Hans Bellmer e all’ironia di Philip Guston. Il risultato è una pittura possente, raffinata e colta che, pur lasciando avvertire le sue fonti d’ispirazione, risulta originale e personale.

Va evidenziato che nelle opere di questi come di altri artisti a marcare la distanza con il surrealismo storico è l’assenza, o meglio, il rifiuto della dimensione ideologica che caratterizzò per anni quegli artisti che, sotto la guida di Breton, manifestarono il proprio appoggio a Trotsky. Fu per questo Dalì, franchista, rimase fuori dal gruppo surrealista. Nelle opere degli artisti di oggi si avverte invece la dimensione politica, ben rimarcata a Venezia dai temi inerenti razza, genere, sessualità e identità. Temi che non sono certo una novità ma che si è ritenuto di ribadire all’interno di una mostra imponente per il numero di opere esposte, che spaziano dai vari tipi di astrazione, arte programmata compresa, al figurativismo.

Eccessi nati da rivendicazioni

Louise Bonnet Pisser Triptych, 2021–2022. Foto Roberto Marossi - Courtesy La Biennale di Venezia

Merito di questa edizione della Biennale è l’aver toccato argomenti importanti, sensibili, delicati, senza scadere negli eccessi disastrosi generati dalla cancel culture e dal politicamente corretto. Eccessi nati delle rivendicazioni di quanti in nome di un’ingiustizia subita nel tempo tendono a mortificare la cultura e le sue espressioni astraendole dal loro contesto storico di appartenenza.

A Venezia quest’anno gli artisti da vedere nella mostra centrale della Biennale sono 213, prevalentemente donne, provenienti da cinquantotto nazioni. 180 di loro partecipano per la prima volta alla Biennale. A questi vanno aggiunti quelli presentati nei diversi padiglioni nazionali, le cui scelte sono fatte in piena autonomia dai diversi commissari.

Impossibile soffermarsi qui su tutti. Ho apprezzato particolarmente il padiglione belga (Francis Alÿs), quello francese (Zineb Sedira, che ha avuto una menzione speciale insieme a quello dell’Uganda), quello italiano (Gian Maria Tosatti) e quello della Gran Bretagna (Sonia Boyce, Leone d’Ero per la miglior partecipazione nazionale).

Non mi hanno convinto fino in fondo quello statunitense (Simone Leigh, Leone d’Oro per il miglior partecipante alla mostra internazionale) e quello tedesco (Maria Eichhorn). Mi ha divertito, anche se è un po’ inquietante, quello coreano (Yunchul Kim). Ma ogni padiglione merita un’analisi più approfondita e, da critico, so bene che un giudizio corretto si può esprimere solo dopo avere studiato a fondo. Come so bene quanto sia facile cambiare opinione analizzando l’opera di un artista per scriverne.

Va segnalato inoltre che il Leone d’Argento «per un promettente giovane partecipante alla mostra internazionale» è andato Ali Cherry, artista libanese che vive in Francia. Contestualmente alla Biennale si sono poi inaugurate una miriade di mostre. Da non perdere sono quella di Anselm Kiefer a Palazzo Ducale, quelle di Anish Kapoor alle Gallerie dell’accademia e a palazzo Manfrin, quella di Marlene Dumas a palazzo Grassi. Certamente di questa edizione della Biennale si parlerà a lungo nel tempo. E bene.

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