Le dinamiche finanziarie innescate dalla pseudo nazionalizzazione di Autostrade per l’Italia (Aspi) cominciano a manifestarsi in modo preoccupante dal punto di vista dell'interesse pubblico.

L’operazione su cui sta indagando la procura della Repubblica di Roma ha portato al passaggio della concessionaria, responsabile del crollo del ponte Morandi di Genova con 43 morti (14 agosto 2018), dalla holding Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton, a una cordata capitanata dalla statale Cassa Depositi e Prestiti (51 per cento) e che include i fondi Blackstone e Macquarie (24,5 per cento ciascuno).

Il veicolo finanziario Hra ha pagato ad Atlantia 8,2 miliardi di euro, accollandosi inoltre 8 miliardi di euro di debiti della società autostradale. E adesso i due fondi (rispettivamente americano e australiano), dopo aver investito due miliardi a testa nell’operazione, cominciano a battere cassa. In sostanza l’investimento cosiddetto pubblico, che nelle premesse avrebbe dovuto garantire una gestione più attenta agli investimenti in sicurezza della rete autostradale che alla distribuzione di dividendi ai soci, sembra già orientato a ripetere lo schema Benetton: azionisti affamati di profitti e dividendi.

Il dividendo

Il primo segnale c'è stato il 20 luglio scorso, quando l'assemblea degli azionisti di Aspi, di cui la holding Hra ha l'88 per cento, ha deliberato la distribuzione di un dividendo di 682 milioni, corrispondenti all'intero utile del 2021. Apparentemente una bella notizia: Aspi scoppia talmente di salute da non dover mettere neppure un filo di fieno in cascina.

Normalmente il dividendo distribuito agli azionisti di una società sana è una parte dei profitti realizzati, perché una parte viene sempre accantonata prudenzialmente nelle riserve. In gergo finanziario, si chiama payout la percentuale degli utili destinata a dividendo. Aspi a guida statale ha scelto un payout del 100 per cento. Evidentemente Aspi, con tutti i problemi che ha, e nonostante la guida della Cdp, cioè dello stato, si comporta come una società cicala.

C'è un dettaglio impressionante. Il contratto di acquisto di Aspi è stato firmato nello scorso mese di maggio. Ebbene, il 28 aprile 2022, quando ancora l'88 per cento di Aspi apparteneva ad Atlantia, si è riunita l'assemblea dei soci che ha deliberato di non distribuire alcun dividendo e, come si dice in gergo bilancistico, portare a nuovo i 682 milioni di utile netto: «Nelle more del perfezionamento dell’accordo negoziale e considerata l’opportunità di ricostituire le riserve di patrimonio netto in sospensione di imposta ridotte lo scorso anno a seguito della perdita del 2020».

Il riferimento è all'accordo negoziale con cui il concedente, il ministero delle Infrastrutture, ha "perdonato" la concessionaria per il crollo del ponte Morandi sostituendo la sanzione della revoca della concessione con l'obbligo per Atlantia di vendere Aspi a Cdp e soci. Quell'accordo negoziale il 28 aprile era ancora sub judice, visto che era condizione vincolante per la sua validità il perfezionamento della vendita di cui sopra, che è avvenuta una settimana dopo.

Quindi Atlantia il 28 aprile era ancora “sotto processo” e rischiava ancora, teoricamente, la revoca della concessione. Così ha rinunciato al dividendo, anche se fonti finanziarie a conoscenza del dossier ritengono che Atlantia sia riuscita a farsi ricompensare il sacrificio dei 600 milioni circa corrispondenti all'88 per cento delle azioni nel prezzo pagato da Cdp e soci pochi giorni dopo.

Fatto sta che, carte alla mano, la necessità di tutelare il livello di patrimonio netto risulta sentita dagli uomini dei Benetton ma non dai servitori dello stato che hanno comprato la società, asseritamente per preservare la comunità nazionale da nuovi crolli di viadotti. E così, appena ottenuto il possesso delle azioni, Cdp, Blackstone e Macquarie hanno convocato un'assemblea degli azionisti e hanno sfilato dalle casse della concessionaria autostradale i 682 milioni. E non è finita.

Gli azionisti di Aspi stanno facendo pressione sull'amministratore delegato Roberto Tomasi, uomo scelto dai Benetton e confermato dai nuovi padroni, perché faccia girare i numeri in modo da distribuire anche un dividendo straordinario estratto dalle riserve della società. In particolare punterebbero a ottenere almeno quei dividendi che non sono stati distribuiti prudenzialmente negli anni del Covid. Sul punto da Cdp arriva il no comment.

Ce n'è abbastanza per sospettare che la gestione cosiddetta statale di Aspi non sia meno avida di dividendi di quella dei Benetton. Si pone a questo punto un interrogativo. Cdp, che pure controlla Aspi, detenendo attraverso la sua Cdp Equity il 51 per cento della scatola Hra che a sua volta detiene l’88 per cento della concessionaria, non consolida la società. In termini tecnici non include i dati di bilancio di Aspi nei conti generali di Cdp, il cosiddetto bilancio consolidato che, nella fattispecie, dovrebbe vedere aumentato degli 8 miliardi di Aspi il suo debito. Non sono note le ragioni di questa scelta.

Ma viene da chiedersi quali siano i patti parasociali che governano la holding Hra (i patti parasociali sono gli accordi tra i soci che regolano i rapporti di potere tra loro al di là delle norme statutarie di una società. Per esempio, l’azionista di maggioranza nomina l'amministratore delegato, quello di minoranza nomina il presidente). I patti parasociali delle società quotate in Borsa sono pubblici per obbligo di legge.

Quelli di Hra sono segretissimi, perché Cdp usa i soldi pubblici con le regole di una società privata. E resta la curiosità di sapere quale potere di influire sulla politica di bilancio e dei dividendi sia stato concesso a Blackstone e Macquarie.

 

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