Il nostro paese è sempre più spaccato in due. Da un lato, una minoranza benestante che avverte dinamismo e crescita, dall’altra parte una ampia maggioranza, in difficoltà, che percepisce una situazione paludosa, quando non decadente.

Il 21 per cento degli italiani ritiene che, nei prossimi mesi, l’economia italiana sarà in crescita. Ne sono convinti un po’ di più della media i giovani (28 per cento), i residenti a centro nord (27 per cento), i laureati (32 per cento) e il ceto medio (32 per cento). La maggioranza del paese prevede, invece, una situazione stagnante (36 per cento) oppure in recessione (30 per cento). La restante quota del 13 per cento non si pronuncia. Le dinamiche recessive sono sottolineate dai millennial (37 per cento), a nord est (37) e centro sud (35), dai residenti nelle periferie urbane (37), dai disoccupati (40), dai piccoli imprenditori (41) e dal ceto popolare (48 per cento).

Di contro nel ceto medio la sensazione di recessione si ferma al 17 per cento. La ricetta per sostenere le famiglie e imboccare una via della crescita è costellata da sguardi molteplici e dicotomici. Al primo posto dell’agenda per il futuro abbiamo la necessità di aumentare gli stipendi. Una scelta auspicata dal 49 per cento degli italiani, in particolare dalle donne, dai giovani e dagli operai (52 per cento), dalle casalinghe (57) e dal ceto popolare (57 per cento).

Salario minimo e precariato

Al secondo posto, al 35 per cento di media, troviamo due temi: la necessità di ridurre il divario tra ricchi e poveri e l’introduzione del salario minimo. Quest’ultimo piace in particolare agli uomini (40 per cento), alla generazione Z (42 per cento), ai residenti nel centro-nord (41 per cento) e nelle periferie urbane (38 per cento), nonché ai disoccupati (43 per cento) e ai ceti popolari (40 per cento).

La riduzione della distanza tra ricchi e poveri è auspicata, innanzitutto, dalla generazione Z (41 per cento), da quanti vivono a nord est (38 per cento), centro sud e isole (39 per cento), dai residenti nelle periferie urbane (38 per cento) e nelle aree rurali (37 per cento), nonché dai disoccupati (45 per cento), dai pensionati (41 per cento) e dai ceti popolari (52 per cento). Nel ceto medio il tema, invece, è molto basso e si ferma al 25 per cento.

Nella scala delle priorità di intervento troviamo al terzo posto il divieto per i contratti precari, con l’obiettivo di dare stabilità esistenziale ai giovani (32 per cento). Una possibilità auspicata prioritariamente dalle donne (35 per cento), dai genitori, i baby boomer (40), dai residenti a nord ovest (38) e nelle isole (37), da quanti vivono nelle periferie urbane (34) e nei piccoli comuni (39), nonché dagli studenti (34 per cento) e dagli appartenenti al ceto medio-basso (37 per cento).

Divari che rischiano di aumentare

A queste priorità, seguono altre quattro diverse tipologie di azioni. Al quarto posto ci sono, entrambi al 28 per cento, politiche di sgravi fiscali, da un lato per le famiglie con figli, dall’altro lato la detassazione per le imprese che assumono a tempo indeterminato. Il tema degli sgravi fiscali per chi assume piace ai baby boomer (35 per cento), a nordovest (36), ai piccoli imprenditori (41) e al ceto medio (34 per cento).

Il tema degli sgravi fiscali per le famiglie, invece, è foraggiato dal ceto popolare (31 per cento), dagli operai (36) e dai residenti nelle periferie urbane (32 per cento). Al quinto e sesto posto della strategia di sostegno alle famiglie e di ripresa economica, gli italiani mettono il taglio alla casta (27 per cento) e l’investire sulla formazione e la conoscenza, specie per i giovani (24 per cento).

La guerra alla casta è importante, in primis, per i baby boomer e a nord est (38 per cento), tra i piccoli imprenditori (31) e nel ceto medio-basso (32 per cento). L’investire su formazione e cultura dei giovani è una prerogativa per il ceto medio (38 per cento), per il ceto dirigente (37), per i laureati (33), per i residenti a centro nord (38) e per le generazioni Z e millennial (30 per cento).

Ultimo, nella scala di importanza, arriva la riduzione del debito pubblico, che interessa il 22 per cento degli italiani. Un tema che appassiona soprattutto il ceto medio (29 per cento). I dati mostrano non solo un paese spaccato in due, con ricette dicotomiche per il futuro (una disegnata dal ceto medio e l’altra dai ceti popolari), ma evidenziano anche quanto le dinamiche future, in ragione delle ricette auspicate, rischiano di essere sempre più orientate a incrementare i divari sociali, anziché ridurli.

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