L’uguaglianza di tutte le persone è la prima delle “verità inconfutabili” (self-evident truths) nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino promulgata nel 1789 in Francia recita, nel suo primo articolo: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune».

Le rivoluzioni che hanno costruito la base delle democrazie liberali occidentali hanno avuto nell’uguaglianza il principio fondamentale e quello più caratterizzante rispetto ai regimi imperiali e dispotici a cui si opponevano.

Fondamento democratico

Il tema dell’uguaglianza – e specularmente, delle disuguaglianze – è quindi tra quelli fondanti per le società democratiche. Nel momento che più celebra il potere (krátos) del popolo (démos), e cioè le elezioni, è quindi auspicabile che questo argomento sia al centro del dibattito. E specialmente in un periodo storico in cui le disuguaglianze continuano a crescere, mettendo in crisi non solo l’idea di pari opportunità economiche e sociali per tutti, ma anche quella di eguale accesso ai diritti politici e alla partecipazione civile.

Processi epocali come l’integrazione economica globale e la rivoluzione delle tecnologie digitali non hanno rappresentato un vantaggio per tutti, a dispetto di una retorica semplicistica che indicava il contrario. Delocalizzazioni, competizione salariale globale e paradisi fiscali, così come la polarizzazione del mercato del lavoro che la rivoluzione digitale ha inasprito, hanno avvantaggiato una minoranza e lasciato ampie fasce della popolazione in condizioni stagnanti o peggiori (si pensi ai livelli raggiunti dal tasso di povertà assoluta in Italia).

Alcuni eventi contingenti hanno ulteriormente inasprito le disparità, come la pandemia di Covid, l’inflazione degli ultimi mesi e le conseguenze della guerra in Ucraina, prima fra tutte l’aumento dei costi delle fonti energetiche. Il divario tra privilegiati e fragili si è ampliato al punto da avere, secondo molti studiosi, effetti negativi sulla crescita economica, perché l’impoverimento delle classi medie e basse porta a una riduzione dei consumi, comprimendo le opportunità di investimento per le imprese o orientandole verso beni e attività riservati alle classi alte – non sempre gli investimenti più produttivi.

E si è talmente solidificato da perseverare attraverso le generazioni, diminuendo la mobilità sociale.

Una soluzione non basta

Chiunque voglia combattere le estreme disuguaglianze si trova quindi di fronte un problema per il quale non esiste una singola soluzione o misura di politica economica e sociale, ma la combinazione di interventi che coinvolgano le diverse dimensioni che concorrono all’inasprimento delle disparità.

La politica tributaria, certo, ma anche un sistema educativo che dia a tutti effettivo accesso alla migliore istruzione possibile; un sistema sanitario che non lasci nessuno scoperto; una politica urbana e abitativa che renda accessibile l’acquisto o l’affitto di una casa e non crei segregazione basata sul censo; una politica industriale che indirizzi l’innovazione verso impieghi che generano opportunità di lavoro buono, stabile ed equamente remunerato; una regolamentazione dell’informazione che consenta a tutti di orientarsi fra notizie fondate e quelle pericolosamente false.

Cosa si trova di tutto questo nei programmi delle principali coalizioni e forze politiche che si presentano alle elezioni del 25 settembre? Assumiamo che tutte le proposte e promesse siano credibili, per semplicità, e ci siano le risorse economiche per attuarle (nessuno dei programmi è convincente sulle coperture). Chiediamoci innanzitutto se queste formazioni ritengono la disuguaglianza un problema di prim’ordine, se le proposte colgono la complessità e multidimensionalità del problema, e quali principi ed evidenza scientifica ispirano queste proposte.

Un problema non prioritario

Il programma ufficiale della destra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia), scarno di dettagli in generale, non fa quasi nessun riferimento al tema della disuguaglianza. Fanno eccezione brevi cenni a politiche assistenziali (l’aumento delle pensioni minime) e abitative, con un richiamo a un programma di edilizia residenziale pubblica che però non specifica forme di integrazione con il resto delle realtà urbane, col rischio di una perdurante segregazione geografica.

Insieme ad alcune proposte, come la cosiddetta “flat tax”, questo limitato interesse sembra supportare la congettura che lo storico economico Guido Alfani ha elaborato su Repubblica: la destra italiana (e non solo) ha una idea di società in cui la diseguaglianza economica e sociale non è un problema di prim’ordine, ma piuttosto la naturale (e positiva) evoluzione di un sistema economico in cui chi ha più merito ottiene di più, e questi vantaggi sono a loro volta di stimolo per gli altri a lavorare più sodo per arrivare anch’essi, un bel giorno, in cima alla gerarchia economica e sociale.

L’approccio ostile verso i fenomeni migratori denota inoltre una visione esclusiva della società, in cui, in primo luogo, vanno supportati i cittadini italiani bisognosi e poi gli altri se resta qualcosa – una contrapposizione fra ultimi e penultimi che non favorisce né gli ultimi, né i penultimi.

Merito e mercato

La piccola coalizione di centro (Azione e Italia viva) condivide nel suo programma l’approccio liberale e conservatore della destra secondo cui il merito e il mercato, specie attraverso l’impresa, sarebbero i motori sia della crescita sia delle pari opportunità. Un’ampia sezione di questo ben più dettagliato programma propone un rilancio della scuola come creatrice di “capitale umano”, per esempio; numerosi sono poi i riferimenti a strumenti per favorire l’imprenditoria, specie quella giovanile, e l’investimento in nuove tecnologie.

Tuttavia, non c’è evidenza chiara che la creazione di nuove imprese riduca le disuguaglianze e aumenti la mobilità sociale. Inoltre, non tutti gli investimenti in nuove tecnologie sono uguali, e la ricerca recente sottolinea come l’intervento pubblico possa contribuire a indirizzare questi investimenti in direzioni che aiutino a creare nuovi lavori stabili invece che sostituire (o demansionare) i lavoratori in favore dell’automazione. Infine, le proposte sulla scuola esaltano la competizione e la libertà di scelta fra scuole pubbliche e private o paritarie.

Sappiamo tuttavia che le scuole private possono essere un veicolo di maggiore disuguaglianza, e non solo a causa delle eventuali rette a carico delle famiglie che non tutti possono permettersi. La tendenza a preferire l'interazione coi propri simili può portare a popolazioni di studenti più omogenee, o spingere queste scuole dotate di maggiore autonomie ad ammettere (magari sotto la pressione delle famiglie stesse) studenti provenienti solo da certe classi sociali; la maggiore istruzione e interesse per l'educazione dei figli di genitori più benestanti può poi tradursi in una migliore offerta formativa di queste scuole, per via del maggior coinvolgimento ma anche delle donazioni da parte delle famiglie stesse.

Se eccessivamente esaltato, questo tipo di autonomia e competizione che alimenta le radici della disuguaglianza può avvenire anche fra scuole pubbliche, specie in presenza di segregazione abitativa e quindi di scuole locali con diverso coinvolgimento e aiuto da parte delle famiglie. Simili distorsioni e disparità possono derivare dalla compresenza di servizi sanitari pubblici e privati: come ha argomentato Stefano Ungaro su questo giornale, questa forma di “competizione” ha spesso finito per creare disparità di accesso basate sullo status economico dei cittadini. 

Curiosamente, nel programma del “terzo polo” c’è un (sacrosanto) richiamo all’importanza della lettura e al fatto che in Italia le persone leggono pochi libri. Tuttavia, pur nella ricchezza di dettagli, sembra che sui temi economici e sociali gli estensori di questo programma siano un po’ indietro con le loro letture.

Un’occasione mancata

Il programma del Partito democratico, in cui la parola “disuguaglianza” ricorre dieci volte (a differenza di una volta o mai negli altri programmi), sembra riconoscere maggiormente la necessità di interventi in molti ambiti per ridurre le disparità.

Ne sono testimoni il richiamo a una tassazione più progressiva e più spostata sul capitale invece che il lavoro; l’accento sulla riduzione della precarietà lavorativa per favorire i contratti a tempo indeterminato e introdurre un salario minimo legale, così come la remunerazione degli stage; il riferimento esplicito alla fornitura pubblica di sanità e istruzione; la considerazione articolata (a differenza della sommarietà degli altri programmi) dei diritti civili, perché la disuguaglianza economica e sociale colpisce severamente chi di questi diritti gode meno, ad esempio per via del genere o dell’orientamento affettivo; l’allargamento dell’obbligo scolastico alla scuola dell’infanzia e il suo allungamento fino ai 18 anni; l’equiparazione dei congedi di paternità e maternità, per ridurre le differenze di opportunità fra uomini e donne; la necessità di nuove assunzioni nella pubblica amministrazione, il cui buon funzionamento è particolarmente importante per le classi più fragili, ma richiede più e meglio qualificato personale, e non meno in nome della contrazione del settore pubblico come forma primaria di controllo della spesa.

Resta, nel caso del Pd, una questione di credibilità politica: pur essendo stato nelle maggioranze di governo quasi sempre da oltre dieci anni, il Partito democratico è stato molto deludente nel rispetto di questi principi e nell’attuazione di queste proposte.

Seppure riportate in forma solo schematica e senza discussione di principi o elaborazione dei dettagli, molte delle proposte del Partito democratico si ritrovano nel programma del Movimento 5 stelle

Almeno per quanto riguarda l’atteggiamento verso il tema della disuguaglianza, e le politiche pensate per combatterla, Pd e M5s risultano quindi talmente vicini da chiedersi perché mai non sia stato possibile presentare una proposta unitaria che potesse essere davvero competitiva rispetto alla destra, considerando i numeri perentori (e impietosi per la sinistra) nei sondaggi.

Una proposta unitaria che avrebbe potuto avvicinare al voto parte della sempre più ampia platea di astenuti, nella quale sono sproporzionatamente rappresentate proprio quelle classi più fragili che più potrebbero beneficiare da una maggiore attenzione del futuro governo alla lotta alle disuguaglianze. Classi più fragili che, di nuovo attenendosi ai sondaggi e ai programmi, il probabile futuro governo continuerà verosimilmente a ignorare.

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