La nuova regola di bilancio europea è legge. Dopo l’approvazione del Parlamento europeo il 23 aprile scorso (con la tragicomica astensione dei partiti di governo italiani che hanno di fatto sconfessato il Ministro Giorgetti), il via libera definitivo è venuto lunedì scorso dal Consiglio europeo.

Il nuovo Patto non è chiaramente all’altezza delle sfide che l’Europa dovrà fronteggiare nei prossimi anni; non è difficile immaginare che ci troveremo tra qualche tempo a discutere di come riformare una regola che ci avrà fatto accumulare ulteriori ritardi nella transizione ecologica e nella trasformazione strutturale delle nostre economie.

Ma andiamo con ordine. Per chi non legge regolarmente il Diario Europeo è forse necessario un breve riassunto. Le regole di bilancio hanno come obiettivo quello di limitare il rischio che le finanze allegre di paesi che condividono la stessa moneta crei contagio e instabilità.

Mentre su questo principio generale si può essere generalmente d’accordo, le opinioni divergono radicalmente, anche tra gli addetti ai lavori, su come la regola dovrebbe proteggere il club dal potenziale comportamento irresponsabile di alcuni dei suoi membri.

La regola appena entrata in vigore sostituisce il vecchio Patto di Stabilità, introdotto negli anni Novanta e negli ultimi anni criticato da praticamente tutti perché eccessivamente restrittivo e inefficace: da un lato impediva ai governi nazionali di utilizzare lo strumento della politica di bilancio, dall’altro, come dimostra la crisi greca, non ha impedito finanze pubbliche allegre.

In particolare, il vecchio Patto era incentrato su obiettivi annuali di disavanzo e così facendo spingeva a politiche pro-cicliche: quando a causa di un qualunque shock l’economia rallentava, causando una degradazione delle finanze pubbliche (quando l’economia va male lo Stato spende di più, ad esempio per i sussidi di disoccupazione e incassa meno), la regola richiedeva una correzione; l’economia, già in rallentamento, veniva ulteriormente frenata da politiche di bilancio restrittive.

Nuova regola e vecchi problemi

La nuova regola apparentemente risolve questo problema, introducendo una prospettiva di medio periodo. I paesi membri devono elaborare (di concerto con la Commissione europea) dei piani pluriannuali di rientro da debito e disavanzo eccessivi, che possono essere ulteriormente allungati se il paese dimostra di essere impegnato in riforme o in progetti di investimento che aumenteranno il potenziale di crescita. Questo ha spinto molti a celebrare la riforma come un sostanziale passo avanti.

Chi scrive invece si colloca tra coloro che ritengono che la montagna abbia partorito un topolino e che la nuova regola non cambierà un quadro che impedisce ai governi europei di investire nella trasformazione delle nostre economie.

Il Diario Europeo aveva già notato (2 gennaio 2024) come l’intransigenza del governo tedesco avesse di fatto svuotato la discreta proposta di riforma della Commissione introducendo una serie di clausole di salvaguardia che di fatto reintroducono obiettivi annuali di riduzione di debito e disavanzo (in alcuni casi addirittura più stringenti di quelli della vecchia regola), rendendo privi di significato i piani pluriannuali. È insomma probabile, se non certo, che il nuovo Patto sarà ancora un freno per l’economia europea, causando politiche pro-cicliche, comprimendo l’investimento, esercitando una pressione al ribasso (deflattiva) sulla crescita.

Una pressione deflattiva che sarà ancora più marcata se la restrizione sarà effettuata contemporaneamente da un numero significativo di paesi, con effetti detti di spillover: la minor crescita francese, ad esempio, avrà un impatto sulle importazioni dall’Italia e quindi sulla crescita del nostro paese.

La nuova regola farà male da subito

Purtroppo, scopriremo presto se queste valutazioni negative sono giustificate. Nei giorni scorsi il Financial Times affermava che undici paesi europei (tra cui l’Italia e la Francia) hanno disavanzi eccessivi e rischiano l’apertura di una procedura (prologo a piani di consolidamento fiscale) da parte della Commissione perché il loro disavanzo era superiore al 3 per cento della regola. A questi paesi, per evitare sanzioni, sarà richiesto di ridurre da subito il disavanzo (alla faccia dei piani pluriannuali).

Ora, la stessa Commissione prevede per sette di questi paesi una crescita inferiore al potenziale, e in generale per tutta l’eurozona una crescita anemica. Insomma, una storia già vista: come cento altre volte negli scorsi anni, la regola chiederà di frenare mentre l’economia rallenta. C’è poi un’altra fonte di preoccupazione alla lettura dell’articolo del Financial Times: alcuni dei paesi (ad esempio la Polonia) proveranno ad evitare la procedura di infrazione giustificando il disavanzo con le spese militare.

Nessun paese potrà invece invocare le spese per la transizione ecologica. Si vede fin dall’inizio il risultato calamitoso della scelta di non proteggere esplicitamente l’investimento verde nella nuova regola nonostante molti l’avessero invocata negli anni scorsi, nella discussione che ha preceduto la riforma.

Cosa fare ora? Nei giorni scorsi Roberto Romano notava amaramente su Sbilanciamoci che nella trattativa sulla riforma del Patto si sarebbe dovuta avere una convergenza dei governi spagnolo, francese e italiano, che invece hanno deciso di procedere in ordine sparso dando via libera ad una non-riforma e lasciando sola la Commissione davanti ai falchi del rigore prima di tutto.

Strategia doppiamente miope in un anno elettorale, mi sia consentito di aggiungerlo, perché sarebbe probabilmente stato utile potersi intestare di fronte agli elettori un vero cambiamento del quadro europeo, invece di una riformicchia che addirittura (lo mostra il voto di astensione di Lega FdI e Forza Italia al Parlamento europeo) è meglio disconoscere.

Non c’è altra scelta che riaprire il dibattito

Le elezioni europee ci daranno un Parlamento europeo meno europeista, con una destra (più o meno) nazionalista più forte in quasi tutti i paesi. In queste condizioni, sarà difficile mettere in agenda una discussione seria su altre riforme radicali.

La creazione di una Capacità di bilancio europea sarebbe di gran lunga l’opzione migliore per dotare l’Unione europea degli strumenti per attuare politiche industriali volte ad aumentare la produttività e a favorire la transizione verde.

Ma non è realista immaginare che i governi europei e il Parlamento europeo che uscirà dalle urne il 9 giugno avranno la voglia e la possibilità di aprire questo cantiere. Se, come è plausibile, il nuovo Patto di stabilità si rivelerà un freno alla crescita e all’investimento, aprire il dibattito sulla “riforma della riforma” a quel punto diventerà l’unico (strettissimo) sentiero a disposizione dei riformisti europei.

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