La crisi di Svb e del Credit Suisse pongono una serie di interrogativi. Esiste un dilemma tra stabilità delle banche e lotta all’inflazione, al costo di barattare la difesa del potere di acquisto per salvare i depositanti? Il dilemma non esisterebbe se le politica monetaria non avesse contribuito a creare l’inflazione con il quantitative easing (Qe) e i tassi negativi. Non voglio stigmatizzare quegli interventi fatti per contrastare gli effetti di Covid e crisi energetica, ma solo ricordare che il rischio di crisi finanziarie è un corollario inevitabile della lotta all’inflazione. L’aumento dei tassi diminuisce infatti il valore di tutti i titoli di stato e obbligazioni, della ricchezza immobiliare, per via dell’aumento dei mutui, e delle azioni (quotate e non) perché riduce il valore attuale degli utili futuri. E il taglio della liquidità da parte della banca centrale, unitamente all’aumento dei tassi, comprime il credito disponibile e aumenta la richiesta di margini di garanzia. Con conseguenze recessive.

I prossimi passi

La Bce ha aumentato i tassi di 50 centesimi: se non l’avesse fatto, dopo averlo preannunciato, avrebbe certificato la gravità della crisi creando panico. Penso che la Fed farà lo stesso con un aumento dello 0,25. Ma da qui in avanti la politica monetaria sarà guidata dalla necessità di evitare che le crisi bancarie, tutt’altro che risolte, diventino sistemiche. Aumenta pertanto la probabilità che alla fine non si raggiunga l’obiettivo del due per cento di inflazione, per assestarsi sopra al tre: uno scenario, d’altronde, già auspicato da molti autorevoli economisti visto che non esistono solide argomentazioni a sostegno del due.

Il vero dilemma oggi è quale sia il costo minore tra il mancato obiettivo del due per cento e gli effetti depressivi di una crisi finanziaria. In entrambi i casi c’è un costo per i cittadini, ma forse bisognava pensarci prima di creare inflazione. Di fatto si è solo spostato in avanti una parte del costo economico della pandemia e della crisi energetica.

Si incolpa la regolamentazione americana di essere lacunosa per le banche di minori dimensioni. Critiche non condivisibili. La crisi di Svb e di First Republic è di liquidità, non di insolvenza. Svb non faceva investimenti rischiosi, anzi deteneva a fronte dei depositi solo titoli di stato, considerati a zero rischio da tutte le regolamentazioni. Ma che perdono di valore se i tassi di interesse aumentano, creando perdite teoriche; che però diventano reali nel caso ci sia una corsa ai depositi, costringendo la banca a realizzarle, causando l’insolvenza.

Profezia autoavverante

La crisi di Svb è iniziata perché i fondi di venture capital hanno consigliato alle società da loro possedute di ritirare i depositi proprio per il timore delle perdite potenziali sui titoli: la classica profezia che si autoavvera. First Republic, era valutata a premio rispetto al resto del sistema bancario perché solida e redditizia, avendo solo mutui residenziali e titoli garantiti a basso rischio, finanziati con depositi, e una leva complessiva inferiore a tante grandi banche, anche europee. Ma i titoli e prestiti all’attivo sono a tasso fisso, a lungo termine, mentre i depositi, a vista: il timore che le perdite potenziali derivanti dall’aumento dei tassi diventassero reali anche per First Republic ha scatenato la corsa ai depositi. Il rischio di liquidità è dunque intrinseco nell’attività delle banche che si indebitano a breve per investire a lungo: ma che si concretizza solo quando le banche centrali aumentano i tassi e tagliano la liquidità.

Vero che Svb poteva prevedere il rapido aumento dei tassi della Fed (chi lo ha fatto?) e investire solo in TBills a tre mesi; e vero che First Republic poteva coprirsi dal rischio di tasso con i derivati. Ma avrebbero soltanto trasferito a qualcun altro il rischio dell’aumento dei tassi, non eliminato dal sistema. Questo spiega perché siano crollati anche i titoli delle grandi banche, compagnie assicurative, e istituzioni finanziarie, senza contare le ingenti perdite dei risparmi privati e delle banche centrali.

Credit Suisse aveva una pessima reputazione e una storia di scandali e investimenti azzardati, ma un liquidity ratio, cioè un tasso di copertura della liquidità, del 150 per cento e coefficienti patrimoniali adeguati. Anche qui si è trattato di una crisi di liquidità dovuta al panico innescato dalla decisione dell’Arabia Saudita, suo grande socio, di non intervenire a sostegno della banca.

Il vero rischio è che appaiano altre crepe nel sistema finanziario, innescando dubbi, per quanto infondati, sulla solvibilità di qualche banca, costringendola così a vendere titoli per fronteggiare il ritiro di depositi, proprio quando Fed e Bce hanno smesso di comperarli e cominciano ad alienarli.

I costi del rigore morale

Diverse le crepe possibili: a marzo hanno dichiarato default tre grandi fondi su obbligazioni emesse per finanziare investimenti negli immobili commerciali il cui valore è stato falcidiato dalla pandemia e dall’aumento dei tassi. C’è poi l’esposizione ai fondi di private equity e debt che operano ad alta leva e con investimenti in attività illiquide. Senza contare le posizioni in derivati che costituiscono una parte considerevole degli attivi “privi di rischio” per la regolamentazione di alcune banche tedesche e francesi. L’Europa non è immune: basta guardare alla valutazione delle banche europee, a forte sconto sul loro valore patrimoniale, indicatore tangibile dei timori degli investitori. E la crisi durerà fino a quando non si saranno scoperte tutte le crepe nel muro.

Fed e Banca centrale svizzera di fatto hanno assicurato tutti i depositi con finanziamenti illimitati anche se privi di garanzie adeguate (400 i miliardi erogati dalla Fed solo in una settimana). Se del caso, la Bce ha già dichiarato che farà lo stesso; come la Banca d’Inghilterra a ottobre con la crisi dei fondi pensione. È la risposta corretta perché si deve evitare che crisi di liquidità causino insolvenze. Ma è solo un palliativo.

Alla fine, o si incentivano le maggiori banche a comperare quelle in crisi, come dopo il 2008 e 2012, creando però mega banche too big to fail perché una loro insolvenza causerebbe quella del paese. O si rafforza la regolamentazione per eliminare tutti i rischi dai bilanci bancari, ma trasferendoli in questo modo al resto del sistema finanziario e in un’ultima analisi al risparmio del pubblico. O si impone l’assicurazione obbligatoria per tutti i depositi, come per le auto, causando però un aumento dei costi di intermediazione in quanto il maggior onere dell’assicurazione verrebbe ribaltato sui clienti delle banche. Non ci sono tante alternative. La diatriba che ci vede opposti al governo tedesco, il quale blocca l’assicurazione europea sui depositi perché considera i Btp rischiosi, mi sembra poi fuori dal tempo.

Si critica l’intervento delle banche centrali perché trasferiscono il costo dei salvataggi bancari al contribuente. Ma di fatto è quello che è già successo con il Qe, vedi le perdite sui titoli delle banche centrali, Bce inclusa. Inoltre, non è necessariamente vero per le crisi di liquidità perché, se si risolvono, i titoli dati in garanzia possono essere ricollocati sul mercato senza perdite.

La garanzia implicita su tutti i depositi crea indubbiamente un azzardo morale perché costituisce un incentivo per le banche ad assumersi rischi eccessi. Evitarlo costituisce il principio fondante della normativa europea sulle risoluzioni bancarie; ed è la ragione per la quale si decise di far fallire Lehman: evitare in futuro l’azzardo morale. Principio corretto se il fallimento riguardasse una singola banca. Ma l’esperienza di Lehman, Svb e Credit Suisse, insegna che le crisi bancarie diventano quasi sempre sistemiche con dei costi per i cittadini che alla fine eccedono di gran lunga quelle dei salvataggi, specie se si tratta di crisi di liquidità e si interviene con grande tempestività come oggi: per questo non credo ci sarà un’altra Lehman.


 

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