Una volta erano cavalieri. Padroni di terreni e di castelli. Semplici signorotti o grandi principi che detenevano ricchezza e potere. Oggi al loro posto ci sono gli imprenditori, che estendono i loro domini nelle industrie e nei commerci. Si fanno ancora la guerra, ma a colpi di acquisizioni e di quote di mercato.

Invece dei capitani di ventura arruolano manager. In alcuni casi tornano a fregiarsi del titolo di cavaliere, ma del lavoro. E con i nobili del Medioevo condividono lo stesso problema: come garantire la continuità della casata.

Se in passato la soluzione era semplice, il primogenito maschio prendeva tutto e gli altri figli venivano spediti in seminario o in sposa a qualche altro castellano, nella società capitalista la questione è più complessa. Per un po’ si è trasferita la proprietà delle aziende ai figli maschi e gli immobili alle femmine, ma poi la legge ha introdotto più equità e di conseguenza maggior difficoltà nella distribuzione di ruoli e di beni.

La morte di Berlusconi

Non a caso è stato proprio il tema della successione uno dei primi argomenti su cui si è concentrata l’attenzione dei mercati finanziari e dei giornali all’indomani della morte di Silvio Berlusconi.

L’imprenditore-politico aveva organizzato la complicata struttura azionaria che controlla Fininvest in modo da garantire ai cinque figli quote paritarie: Marina e Pier Silvio, nati dal primo matrimonio con Carla Elvira Dall’Oglio, e Barbara, Eleonora e Luigi, figli di Veronica Lario, possiedono ciascuno una quota di circa il 7-8 per cento della Fininvest. A cui adesso si aggiunge la ripartizione del 61,2 per cento che era detenuto dal padre. Anche se i due figli più grandi ottenessero la maggioranza, Barbara, Eleonora e Luigi potranno mettere insieme una quota capace di bloccare le decisioni strategiche del gruppo. In particolare è incerto il destino delle televisioni oggi contenute in Mfe (Media for Europe), di cui Fininvest controlla il 50 per cento: politicamente importanti ma non redditizie, potrebbero essere messe sul mercato.

Alle porte del castello berlusconiano restano accampate le truppe francesi di Vivendi: promettono pace ma chissà se è vero. Il gruppo transalpino ha direttamente il 4,5 per cento di Mfe cui si aggiunge il 19,19 per cento trasferito in una fiduciaria. Ma in ballo nella successione non c’è solo una società da 4 miliardi di fatturato registrati nel 2021, c’è anche il futuro finanziario di Forza Italia: i figli dell’imprenditore-politico per ora sembrano voler continuare a foraggiare con i soldi della famiglia il partito. Ma fino a quando?

Milioni di dipendenti

Decisioni difficili, foriere di tensioni e di tempeste. Che prima o poi devono affrontare migliaia di famiglie imprenditoriali. Oggi si stima che in Italia oltre l’85 per cento di tutte le aziende siano controllate da una famiglia. Se si considerano solo le società con un fatturato superiore a 20 milioni, le imprese familiari rappresentano il 65 per cento del totale, con un fatturato complessivo di oltre 730 miliardi di euro e con circa 2,4 milioni di dipendenti.

Anche in Borsa queste società contano ancora tanto: come riporta il Rapporto sulla governance della Consob del 2022, «in linea con gli anni precedenti, le famiglie continuano a essere i principali azionisti di riferimento, controllando il 63,4 per cento delle imprese quotate».

La forte presenza di aziende familiari nel tessuto economico non è una peculiarità italiana, come spesso si crede. In base ai dati forniti dall’associazione Aidaf, l’Italia è in linea con le principali economie europee, come Francia (80 per cento di imprese familiari), Germania (90), Spagna (83) e Regno Unito (80).

Anche negli Stati Uniti le dinastie imprenditoriali hanno un forte peso sull’economia con 32 milioni di imprese che generano il 64 per cento del Pil. Non a caso, una delle serie tv americane più apprezzate e premiate è Succession. Prodotta tra il 2018 e il 2023, racconta le vicende dei membri della famiglia Roy, proprietaria di uno dei più potenti conglomerati di media, alle prese con la decisione del patriarca e magnate Logan Roy di non ritirarsi e quindi di impedire ai figli di succedergli.

La peculiarità italiana

Se in tutto il mondo capitalistico le imprese familiari sono estremamente diffuse, c’è una differenza che distingue gli imprenditori italiani: il minor ricorso a manager esterni.

Il 66 per cento delle imprese familiari italiane, infatti, è interamente gestito dai membri della famiglia, mentre questo vale solo per il 26 per cento delle imprese familiari francesi e appena il 10 nel Regno Unito. Sembrerebbe perciò che gli italiani non siano capaci di separare la gestione dalla proprietà, volendo lasciare il timone ad un familiare. Con tutti i rischi che ne conseguono.

Da uno studio condotto dalla Banca d’Italia (“Assetti proprietari e di governance delle imprese italiane: nuove evidenze e effetti sulla performance delle imprese” di Audinga Baltrunaite, Elisa Brodi e Sauro Mocetti) emergono diversi elementi di forza e di debolezza dell’impresa familiare: tra i primi ci sono la condivisione di valori e interessi, una maggiore facilità di coordinamento attraverso le relazioni informali e l’orientamento di lungo periodo, poiché l’imprenditore considera la propria impresa come un valore da salvaguardare e consegnare alle future generazioni.

Tra gli elementi di debolezza gli autori della ricerca indicano «la difficoltà di accesso a posizioni manageriali di persone talentuose per preservare i legami familiari». Inoltre «l’orientamento alla conservazione dell’impresa nel lungo periodo può associarsi ad un’impostazione strategica poco incline al rischio, limitando le opportunità di sviluppo dell’azienda.

Una resistenza alla raccolta di capitale, sia di rischio che di debito, per ovviare al timore di perdere il controllo, può limitare infine le strategie di espansione nei mercati nazionali e internazionali. Nel complesso, tali risultati suggeriscono che l’effetto negativo della proprietà̀ familiare è maggiore in mercati più aperti alla concorrenza e in imprese nelle quali contano di più competenze manageriali e organizzative».

Archibugi e Nutella

È vero, alcune aziende familiari resistono a lungo, reggono bene la concorrenza e si tramandano di padre in figlio addirittura da secoli. Come la Beretta, che muoveva i primi passi nel 1526 vendendo archibugi alla Serenissima e tuttora, a 15 generazioni di distanza, gode di ottima salute.

Ma molte non superano la fase difficile della successione: il tasso di sopravvivenza non va oltre il 25 per cento per la seconda generazione e il 15 per cento per la terza. Secondo Il Sole 24 Ore, ogni anno 800mila imprese familiari devono gestire il passaggio di testimone.

I dilemmi sulla scrivania del padrone sono due: se concedere la guida della società ad un membro della famiglia e come suddividere la proprietà. A volte mettere a capo dell’impresa un figlio, magari proprio il primogenito, funziona: Guido Barilla, figlio di Pietro, ne è un esempio positivo. Anche Giovanni Ferrero, figlio di Michele, è un caso di successo. In realtà il predestinato a condurre la multinazionale della Nutella era il fratello Pietro, di un anno maggiore, scomparso prematuramente per un incidente in Sudafrica. Ma Giovanni si è dimostrato un ottimo manager avviando un’inedita politica di acquisizioni internazionali.

Anche il finanziere e filantropo George Soros ha appena scelto l’erede all’interno della famiglia: secondo il Wall Street Journal sarebbe destinato al figlio minore Alexander il controllo del suo impero da 25 miliardi di dollari, nonché le Open Society Foundations, attive in oltre di 120 paesi in tutto il mondo, che donano circa 1,5 miliardi di dollari all’anno per sostenere i diritti umani e promuovere la crescita delle democrazie.

Non sempre però la successione di padre in figlio fila liscia. Bernardo Caprotti, patron della catena di supermercati Esselunga, si convinse agli inizi del nuovo millennio di passare le leve del comando al figlio Giuseppe.

Quest’ultimo fece l’imprudenza di concedere nel novembre del 2003 un’intervista a Panorama descrivendo i suoi progetti. Evidentemente già in crisi di astinenza della sua creatura e forse poco convinto sulle capacità del primogenito, Bernardo lo cacciò dall’azienda e creò i presupposti di un duro scontro legale con Giuseppe e l’altra figlia di primo letto Violetta, per riprendere la proprietà delle azioni della finanziaria che controlla Esselunga. Una battaglia che Caprotti alla fine vinse nel 2016. Alla sua morte, nel 2019, lasciò la maggioranza dell’azienda alla seconda moglie, Giuliana, e alla loro figlia Marina.

Un altro licenziamento che ha fatto notizia è quello di Francesca Amadori, allontanata dall’azienda alimentare fondata dal nonno Francesco e di cui il padre Flavio è presidente. Ne è scaturito un contenzioso conclusosi in febbraio con un’intesa extragiudiziale «che consentisse, in primis, la tutela dell’azienda quale patrimonio della famiglia, dei dipendenti e della collettività intera. L’azienda» recita una nota che «augura a Francesca Amadori di poter fruttuosamente intraprendere un percorso professionale diverso, fondato sui suoi 18 anni di presenza in azienda, nel corso dei quali la stessa, ha dimostrato competenza e professionalità». Tanti saluti.

La serie Succession si ispira ad un altro grande protagonista dei media: Rupert Murdoch, 92 anni, proprietario di alcune delle testate editoriali più importanti al mondo e con un patrimonio stimato di 17,5 miliardi di dollari.

A guidare la corsa degli eredi verso il vertice del gruppo ci sono i figli avuti dalla giornalista Anna Torv e sono gli unici con significativi diritti di voto nella governance del trust di famiglia.

Il primo potenziale candidato è Lachlan Murdoch, 51 anni, il figlio maggiore di Rupert. Lachlan attualmente ricopre il ruolo di presidente esecutivo e Ceo di Fox Corporation, oltre a essere co-presidente di News Corp e presidente esecutivo di Nova Entertainment, una società di media australiana. A insidiarlo c’è il fratello James, 50 anni, secondo figlio di Rupert, che è uscito, poi rientrato e quindi riuscito dal gruppo per contrasti con la linea conservatrice dei giornali del gruppo. James starebbe cercando l’appoggio delle sorelle Prudence ed Elisabeth.

Primogeniti o no?

Nella ricerca “Il coraggio di scegliere! Primogenitura e successione alla guida nelle imprese familiari” su 843 successioni avvenute tra il 2000 e il 2012 in aziende familiari italiane con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro, gli autori Andrea Calabrò, Alessandro Minichilli, Mario Daniele Amore e Marina Brogi indagano sugli effetti della scelta del primogenito sulla performance aziendale.

E arrivano alla conclusione che si tratta di una decisione rischiosa se non sbagliata: «Ampliare il bacino di scelta a più candidati interni alla famiglia può invece dare notevoli frutti: diventa più facile individuare leader competenti e pronti a impegnarsi a fondo; inoltre, molto spesso i leader non primogeniti si dimostrano più aperti all’innovazione, più tolleranti al rischio e meno conformisti rispetto alle prassi consolidate in azienda. Adottare la primogenitura come criterio di successione automatico è nel complesso una scelta poco lungimirante: ciò non significa escludere i primogeniti dalla competizione per la leadership, ma garantire a tutti i figli la possibilità di dimostrare le proprie capacità e attitudini. Questo approccio scoraggerà anche possibili atteggiamenti opportunistici verso l’azienda di famiglia da chi altrimenti sarebbe escluso in partenza».

E ancora: «La scelta di un figlio non primogenito si associa a una performance superiore, non solo rispetto a un leader primogenito ma anche rispetto a un leader esterno alla famiglia. Un effetto, tuttavia, che si riscontra esclusivamente nelle aziende familiari non di prima generazione».

Leonardo del Vecchio, morto lo scorso anno, ha invece puntato sui manager e non sui figli per garantire la continuità gestionale di EssilorLuxottica. Claudio del Vecchio, figlio maggiore dell’imprenditore, dopo aver lavorato a lungo in Luxottica è uscito dalla società per occuparsi della società di abbigliamento americana Brooks Brothers che aveva rilevata nel 2001 e che è poi finita in amministrazione controllata nel luglio 2020 ed è stata ceduta qualche mese dopo.

Ma se Del Vecchio ha provato a risolvere il dilemma della gestione scegliendo risorse esterne, non è riuscito a sistemare del tutto la suddivisione del patrimonio: sembrava tutto a posto nel luglio di un anno fa con l’assegnazione delle quote della finanziaria Delfin agli otto eredi che hanno il 12,5 per cento a testa della holding che contiene la quasi totalità del patrimonio del fondatore.

In un primo testamento il fondatore di Luxottica aveva diviso il patrimonio di famiglia, stimato in circa 30 miliardi di euro, in otto quote uguali, assegnate rispettivamente ai sei suoi figli (Claudio, Marisa, Paola, Leonardo Maria, Luca e Clemente), più alla sua prima moglie Nicoletta Zampillo, e al suo figlio di primo letto, Rocco Basilico. In tre documenti successivi, scritti di proprio pugno, Del Vecchio ha però aggiornato l’asse ereditario prevedendo dei riconoscimenti anche per due suoi manager di fiducia, Francesco Milleri e Romolo Bardin. Il trattamento destinato al primo è stato giudicato eccessivamente generoso dal ramo più giovane della famiglia. Ed è nato un contenzioso.

Anche in casa Agnelli, il reame più prestigioso tra le casate familiari, si è riusciti a sciogliere il nodo della gestione affidando a John Elkann, nipote di Gianni, il ruolo di guida dei numerosi eredi. Ma è rimasto aperto lo scontro ventennale sull’eredità dell’Avvocato che vede contrapporsi Margherita, madre di John, contro lo stesso John, Lapo e Ginevra, i figli avuti da Alain Elkann, a difesa degli altri cinque figli, Maria, Pietro, Anna, Sofia e Tatiana, avuti dal secondo marito Serge de Pahlen. Le cause di questa guerra risalgono al 2003, quando Gianni Agnelli morì. L’anno successivo, sua figlia Margherita stipulò un accordo in cui rinunciava all’eredità in cambio di 1,2 miliardi di euro. Successivamente, però, scoprì l’esistenza di conti esteri intestati a società offshore da parte del padre, di cui non aveva mai avuto conoscenza.

Pertanto, nel 2007, intraprese un’azione legale per ottenere una rendicontazione dei beni del padre, ma la richiesta fu respinta dai giudici. In seguito, la vedova di Gianni, Marella Agnelli Caracciolo, nominò i nipoti John, Lapo e Ginevra come unici eredi. Margherita contesta la validità di quei testamenti. D’altro canto, i fratelli Elkann, attraverso i loro avvocati, hanno ripetutamente ribadito che nel 2004 «due accordi fondamentali» furono negoziati e liberamente firmati proprio da colei che ora, come nel 2007, cerca di annullarli legalmente, ottenendo così non meno di 1,2 miliardi. Il tribunale di Torino ha appena accolto la richiesta degli avvocati dei fratelli Elkann, sospendendo il procedimento.

Ma la faida degli Agnelli impallidisce di fronte a quella dei Gucci. Alla morte del fondatore Guccio, nel 1953, l’attività passò Aldo, il maggiore dei tre figli. Aldo espanse rapidamente l’azienda nei principali mercati al di fuori dell’Italia. In breve tempo, Gucci divenne un brand famoso a livello mondiale. Il presidente John F. Kennedy definì Aldo Gucci il primo ambasciatore della moda. Un patrimonio di immagine che fu pesantemente danneggiato dal violento scontro sorto in famiglia: il figlio di Aldo, Paolo, voleva creare una nuova linea di moda. Quando il padre e lo zio respinsero l’idea, Paolo la lanciò alle loro spalle. Fu licenziato e cacciato dall’azienda di famiglia.

Paolo si vendicò denunciando i problemi fiscali di Aldo, che finì per scontare un anno in una prigione federale per evasione. Paolo e suo cugino Maurizio unirono le forze per rilevare l’azienda. Ma senza un piano chiaro, i cugini rischiarono di far fallire l’attività. E quando Maurizio ebbe il controllo esclusivo dell’azienda, Gucci aveva un patrimonio netto negativo di 17,3 milioni di dollari. Con oltre 40 milioni di dollari di debiti personali, Maurizio fu infine costretto a lasciare l’azienda al fondo Investcorp. Poi, nel 1995, Maurizio venne assassinato su mandato della ex moglie Patrizia. Ma questa è un’altra storia.

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