Tra i capitoli della nostra vita in cui Silvio Berlusconi ha rimestato, dapprima portandovi scompiglio e alla fine imponendo il suo ordine, ce n’è uno che, malgrado la sua importanza, non mi pare sia stato menzionato in questi giorni di grandi ricapitolazioni.

Mi riferisco al suo uso del linguaggio, nel senso più ampio del termine. Berlusconi ha infatti influenzato profondamente non solo le modalità della comunicazione pubblica, ma anche il vocabolario quotidiano di molti italiani, imponendo usi che si sono radicati con la forza dei tormentoni e dei memi. Era del resto inevitabile che quella sfera gli stesse a cuore, se la madre Rosa nel 1995 lo descriveva come un «gran chiacchierone e con il gusto della battuta, una cosa che gli è rimasta sempre». Tutte le fonti lo descrivono infatti come parlatore fluviale, inarrestabile, raccontatore di barzellette, costruttore di immagini elementari, di metafore concrete.

L’overtalking

Cominciamo dalla comunicazione pubblica. Dato il suo disprezzo per “il teatrino della politica”, Berlusconi ha prodotto, direttamente o attraverso i suoi emissari, profonde trasformazioni di quella che chiamerei etologia della comunicazione, messe a punto sulle reti televisive di sua proprietà come sui canali Rai. Basterà ricordare che fu a partire dal suo ingresso in politica che nei talk shows cominciò ad apparire una modalità comunicativa mai vista, e tuttora pressoché ignota nei paesi civili: il “parlarsi sopra”, quel che in inglese si indica col preciso termine di overtalking. Ha luogo quando più persone parlano simultaneamente ad alta voce, sovrapponendo inarrestabilmente i propri discorsi, con l’effetto di produrre frastuono e non far capire nulla di quel che dicono.

È ovviamente una mala abitudine, ma, inaugurata agli inizi del potere berlusconiano dagli esponenti del suo partito, si diffuse a macchia d’olio su tutti i plateau. L’esordio ebbe luogo nelle trasmissioni di Santoro (da Moby Dick in poi) e poi in Ballarò di Floris: sulle prime tiepidamente tenuto a bada dai conduttori, l’overtalking fu poi interpretato come titolo di attrazione e tacitamente tollerato.

Oggi, a trent’anni di distanza, come Blob”documenta quasi ogni sera, l’overtalking, intoccabile e senza controllo, è un ingrediente primario nei talk show di tutti i colori politici. È chiaro che Berlusconi non fu personalmente responsabile di questo fatto, ma è innegabile che si sia manifestato proprio in corrispondenza col suo avvento. Del resto, la stampa di allora raccontava a chiare lettere che ai suoi venivano impartite precise istruzioni di comportamento per i talk show, come quella di “parlare sopra” e di tener la voce ben alta.

Interviste e teatro

Va ricondotto invece personalmente a lui un altro uso senza precedenti nella tradizione mediatica, cioè l’intervista in solitaria: da una parte il Cavaliere, dall’altra il conduttore, senza nessun altro. Tra i tanti esempi, sono rimasti famosi i minuetti con Bruno Vespa, tra i quali è storico quello del “contratto con gli italiani” (8 maggio 2001, cinque giorni prima delle elezioni politiche), a sua volta una trovata spettacolare. Stimolate per un verso dalle sue intemperanze mediatiche, per l’altro dal suo timore che gli avversari potessero rubargli spazio, le leggi per la “par condicio” promulgate in quegli anni servirono a poco.

Chi si occupa di comunicazione pubblica avrà ricchissimo materiale di studio, perché il Cavaliere, creativo com’era nell’inventare contegni in pubblico e in video, ha creato un vero e proprio “manuale di teatro politico” che è ancora in uso. Fu lui a inventare le irruzioni telefoniche a sorpresa nel bel mezzo delle trasmissioni televisive, così come il vezzo di raccontare barzellette pesanti (spesso fluviali, come quella, infame, del Cavalier Bestetti) da tribune pubbliche dedicate a temi gravi e urgenti. Fu lui a inventare gli spropositati gesti di sufficienza sorniona e di fastidio dinanzi alla pochezza degli interlocutori.

Alcuni di quelli sono rimasti, se non nella storia del paese, certo in quella della televisione, come la plateale spazzolata col fazzoletto della sedia su cui fino a un minuto prima era stato seduto Marco Travaglio (in una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro, 10 gennaio 2013). Un’altra delle sue invenzioni fu il brusco exit a sorpresa dalla scena, che altri usarono poi senza risparmio: famosa la volta che furibondo abbandonò lo studio di Lucia Annunziata (Mezz’ora, 11 marzo 2006) colpevole, a suo dire, di non lasciarlo parlare quanto voleva.

Parole da Cav

Anche il suo vocabolario, i suoi tic, le sue espressioni, ingredienti essenziali della formula populista, sono rimasti nella cultura di massa, avvertite da alcuni (come me) sin da allora con fastidio, da molti invece assorbite e usate correntemente. Il fenomeno era così evidente che già nel 1997 Augusta Forconi, fine lessicografa scomparsa prematuramente, raccolse in un volume (Parole da Cavaliere, Editori Riuniti) una fittissima documentazione con tanto di riferimenti testuali. Tra le sue “parole guida” Forconi rilevò la straripante ricorrenza della parola io e dei riferimenti alla propria persona, ai suoi meriti, i suoi successi, le sue qualità; la sua abitudine di indicare sé stesso in terza persona («il signor Berlusconi»); la continua evocazione della sua famiglia e della sua prole («la mia famiglia, mio padre, mia madre, i miei figli, la fidanzata di mio figlio, le mie case», fino a «i miei ministri, i miei candidati, i miei deputati»). A queste evocazioni si accompagnava l’immagine di sé stesso, che si dipingeva come uomo vincente ma anche semplice: «Io che non sono molto esperto di politica, io che sono una persona semplice, direi un sempliciotto» (1995).

Impose anche parole d’ordine e stilemi forti: l’apostrofe «si vergogni!», usata senza risparmio sin dai primissimi tempi, è ormai così frequente nei dibattiti che ha perso ogni senso, mentre altri celebri motti (come «si contenga» e «mi consenta») restano come promemoria della sua persona.

Metafore concrete

Siccome si proclamava «uomo del fare» (un’altra sua espressione), le sue metafore erano concrete e spesso di grana grossa. Già nella prima uscita video (26 gennaio 1994) spuntò la frase «L’Italia è il paese che amo», e per diverso tempo l’immagine dell’amore fu martellante: il suo era «il partito dell’amore», contrapposto a quello «dell’odio», rappresentato naturalmente dai «comunisti» (il termine con cui, con totale indifferenza alla storia, indicava chiunque gli apparisse di sinistra).

A quest’immagine vagamente parrocchiale, poco plausibile sulla bocca di un coureur de femmes, si associava teatralmente un’oratoria da omelia: «Il grande esercito degli uomini di buonsenso, di buona volontà, degli uomini e delle donne che stanno dalla parte dell’amore e non dell’odio», 1995).

A dispetto di queste toccate di mitezza, Berlusconi non risparmiava il dileggio a chi non era dalla sua parte. Famosa la sua uscita del 2006, dinanzi a una platea di Confcommercio (che applaudì festosa): «Ho troppa stima nell’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano così tanti coglioni che possano votare contro il proprio interesse» (cioè a sinistra). Lui stesso commentò: «Un linguaggio rozzo, ma efficace»,

Fu instancabile inventore di capriole retoriche, anche queste passate nell’armamentario corrente. La più frequente e classica consisteva nel negare di aver voluto dire quel che altri avevano inteso, anche quando i suoi discorsi erano di solare evidenza: «La sinistra, come al solito quando è in difficoltà, cerca di manipolare una mia frase per montarci sopra un caso del tutto inesistente». Il tormentone del «lasciatemi lavorare», lanciato nel 1994, fu usato a lungo dai suoi sostenitori per giustificare la crisi del suo primo governo (1995): «Non lo hanno lasciato lavorare». È ugualmente rimasta negli usi comuni l’espressione «remare contro». Ma nei vocabolari del futuro il suo nome sarà indicato come fonte d’autore accanto alle metafore in cui la vita appare come una partita di calcio, in particolare accanto alle sue formule-cifra, che non sono mai più uscite dall’uso: «fare un passo indietro», «mettere in campo» e «scendere in campo». 

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