Il quiet quitting è la nuova parola alla moda per descrivere il mondo del lavoro post Covid. Significa lavorare lo stretto indispensabile, rispettare al secondo gli orari del contratto e rifiutarsi di rispondere a mail e telefonate da casa. La parola è iniziata a comparire su TikTok nel corso dell’estate ed è rapidamente arrivata sui grandi media, con articoli sul Wall Street Journal, Bloomberg e il Washington Post. A settembre, un sondaggio dell’autorevole istituto Gallup secondo cui metà della forza lavoro americana era composta da quiet quitter, ha lanciato definitivamente la buzz word fuori dal mondo del social con decine di articoli pubblicati sul tema, anche in Italia. Il fenomeno viene associato alle conseguenze del Covid, spesso con i toni apocalittici di un altrettanto grave e micidiale epidemia di fronte alla quale amministratori delegati e dirigenti devono prendere contromisure.

Ma per molti altri la questione è un altra. «Se il problema del quiet quitting è che il lavoratore si limita a lavorare le ore previste dal suo contratto, perché l’azienda non si limita a pagarlo di più?», si domanda Valerio De Stefano, professore di diritto del lavoro York University a Toronto. Per il sito Gawker, l’intero dibattito somiglia «ad un’operazione di guerra psicologica dei datori di lavoro che cercando di riprendere il controllo di fronte a un’ondata di dimissioni e a un ritorno dei sindacati».

Non è un caso se questo fenomeno è esploso negli Stati Uniti dove i modelli di gestione del personale sono legati all’idea che il lavoratore debba andare above and beyond, ben oltre quello ciò che è scritto nel suo contratto, spiega De Stefano. Ma se un’azienda si regge su questa aspettativa, c’è qualcosa che non va nel suo modello di business, «come un fruttivendolo che vende meloni ad un euro, ma che per sopravvivere si aspetta che i clienti gliene diano uno e cinquanta».

Anche il mondo del lavoro italiano non è estraneo a questa realtà. «Quello dell’italiano a cui cade la penna è un mito – dice De Stefano – Siamo un paese nel quale la cultura aziendale dice che devi dare tutto. Pensate al mondo del terzo settore avanzato di Milano o Torino, con l’aggravante che nel nostro paese gli stipendi sono più bassi e viene chiesto di strafare persino alla segretaria che guadagna meno di duemila euro al mese».

Un fenomeno nuovo?

Nonostante allarme dei Ceo e la fenomenologia social, in realtà non sembra esserci molto di nuovo in questo fenomeno. O almeno: ci mancano ancora i dati per poterlo dire con certezza. La giornalista del Financial Times Sarah O’Connor ha notato che, sempre secondo l’istituto Gallup, dal 2000 ad oggi la percentuale di lavoratori “coinvolti” e “attivamente non coinvolti” nel loro lavoro (i quiet quitter sono definiti come coloro che non appartengono a nessuna delle due categorie) è rimasta più o meno invariata nella forza lavoro degli Stati Uniti.

«Faccio il meno possibile al lavoro non è un’invenzione del Covid o post Covid», dice la professoressa Paula Benevene, ordinario di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università Lumsa. Quello che è nuovo è che se ne sia iniziato a parlare così tanto e quasi tutti concordano sul fatto che c’entrano la pandemia, il lockdown e lo smart working. Nuove modalità di lavoro hanno creato nuove esperienze e molte persone hanno deciso di attribuire un diverso peso al loro tempo. «Soprattutto i giovani danno più valore a esperienza fuori dal lavoro e sono meno disposti a fare sacrifici per la carriera», dice Benevene.

Qualità del lavoro

Non abbiamo abbastanza dati per dire se siamo davvero di fronte ad un aumento o soltanto ad una presa di consapevolezza, ma anche qui non sembra un caso se il fenomeno è esploso per primo negli Stati Uniti, dove una situazione di pressoché piena occupazione ha rovesciato i rapporti di forza in molti settori. I lavoratori non hanno più timore di essere licenziati se non vanno above and beyond e possono permettersi di attribuire un diverso bilanciamento tra vita e lavoro.

Ma se invece che considerare il quiet quitting nella sua definizione più letterale lo prendessimo più come un distacco emotivo, un fare lo stretto indispensabile non solo in termini di orari, ma anche di energie creative? In altre parole, l’assenza di quello che si chiama working engagement o organizational commitment: la disposizione del lavoratore a sentirsi coinvolto e partecipe nella sua organizzazione. Il lavoro, dopotutto, non è solo una questione di soldi, «è un luogo di socializzazione, dove si impara e si cresce. Il mio coinvolgimento dipende dipende da quanto mi sento legato emotivamente, da quanto condivido i valori e gli obiettivi della mia azienda», dice Benevene.

Tutte caratteristiche che possono spingere il lavoratore a fare qualche metro in più, non necessariamente in termini orari, ma ad esempio di iniziativa e proposta. Per farlo serve un ambiente adatto, sia dentro che fuori dal posto di lavoro, in termini ad esempio di sostegno alla cura di familiari anziani o figli. Detto brutalmente: «Se è tutto uno schifo perché mi devo impegnare?», si domanda Benevene.

Il fatto che il dibattito sia iniziato, che sia sia dato un nome al fenomeno, deve essere preso dalle aziende come un campanello d’allarme. In una cosa, insomma, i Ceo hanno ragione. Bisogna fare qualcosa, ma più che gridare all’epidemia, si tratta di aumentare gli stipendi, i servizi extra lavoro e il clima e il coinvolgimento positivo dei lavoratori. Per Benevene: «É un tema che a lungo non è stato preso seriamente, ma ora le cose sono cambiate ed bisogna prenderne atto».

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