Il fallimento della risposta europea all’Inflaction reduction act americano era annunciato. Talmente annunciato che appena la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato il suo piano industriale per il Green New Deal, pomposo nel nome ma non nella sostanza, i suoi più grandi elettori al parlamento europeo, i Socialisti e democratici e i Popolari europei, hanno fatto a gara a bocciarlo per primi.

I primi sonoramente, definendolo inadeguato, vago, insufficiente per bocca della presidente del gruppo, Iratxe Garcia Perez. Garcia Perez lamenta la mancanza di qualsiasi ragionamento sociale dietro la trasizione energetica e di finanziamenti ad hoc, e quindi la mancanza di valore aggiunto: «un esercizio di rebranding e rietichettatura». I popolari, invece, pur sostenendo il piano di von der Leyen lo dichiarano tardivo e troppo limitato e attaccano frontalmente le politiche troppo ambientaliste della commissione sulle emissioni industriali. 

Al momento il punto centrale è la riforma e l’estensione del quadro temporaneo degli aiuti di stato al 2025, con la possibilità di sussidiare i settori a rischio delocalizzazione e anche di offrire alle aziende che possono ricevere sussidi da altri stati fuori dai confini europei lo stesso aiuto. Un meccanismo che pur limitato nel tempo, può far esplodere le disparità tra paesi Ue e che avalla ancora di più la corsa ai sussidi innescata dall’Inflaction Reduction Act americano..

La questione dei fondi

Il resto è un piano per agevolare la formazione e attrarre le professionalità nei settori delle nuove tecnologie verdi, nuove iniziative sul fronte diplomatico commerciale per assicurarsi le materie prime per la transizione e partnership industriali extra Ue e di fatto un mero riepilogo dei fondi a disposizione. 

Sul fronte dei fondi, come spesso accade in Ue, la formulazione scelta dal documento di Von der Leyen, lascia aperte le possibilità di trovare fondi comuni, a cui si sono già esplicitamente opposti nove paesi più la Germania, ma senza al momento impegnarsi a trovarne. 

Lo strumento principale di finanziamento del Green New Deal, infatti, resta RePower Eu, che è a sua volta finanziato «da altri fondi». Di conseguenza intanto accontentiamoci di RePower e poi vedremo se il suo budget aumenterà. 

La proposta sugli aiuti di stato

La proposta di revisione degli aiuti di stato al momento è una bozza su cui si è aperta una consultazione con gli stati membri, in realtà 23 su 27, ha spiegato la vicepresidente Margrethe Vestager, hanno già risposto, di conseguenza il documento presentato oggi già recepisce le posizioni comuni degli stati. E le posizioni comuni degli stati già presuppongono un compromesso: perché tutti vedono la minaccia posta dai piani americani a specifici settori chiave per la transizione europea,ma allo stesso tempo pensano che l’Ue debba affrontare solo i problemi specifici posti dall’Ira americano. Il tutto, sarebbe l’obiettivo, preservando il mercato unico. 

Per fare questo la proposta meno problematica è semplificare le procedure, aumentando i massimali degli aiuti di stato nei settori della transizione che non prevedono notifica e estendere ancora a 36 mesi la scadenza dei progetti che li ricevono. 

Rincorrere gli americani

Ne seguono due invece molto più problematiche: da una parte si permettono gli aiuti di stato ai settori che rischiano la delocalizzazione e solo basandosi sulle scelte americane. «In termini di settori, le nuove disposizioni dovrebbero corrispondere a quei settori interessati dall'Inflation Reduction Act – e solo a quelli. Come le batterie per i veicoli elettrici o le turbine eoliche», ha spiegato Vestager. L’antidoto alle disparità, in questo caso, verrebbe dal fatto che le regioni meno sviluppate avrebbero la possibilità di offrire aiuti maggiori, sia in percentuale che in valore assoluto, e saranno favoriti gli sgravi fiscali, invece che le sovvenzioni, cosa che però non cambia molto dal punto di vista dei saldi delle finanze pubbliche, e gli aiuti alle piccole medie imprese. 

A questa si aggiunge la possibilità di sussidi diretti e sempre pari a quelli americani. «Se a un'azienda viene offerto 1 miliardo di dollari da un paese terzo per sostenere, ad esempio, un nuovo impianto di batterie, uno Stato membro potrebbe offrire lo stesso», ha dichiarato a mo di esempio la vicepresidente Ue. Vestager ha riconosciuto pubblicamente che si tratta di un grave rischio per la concorrenza, ha ricordato pure che l’80 per cento degli aiuti sono stati erogati da Germania e Francia nel quadro transitorio degli aiuti di stato, solo che la soluzione al rischio di disintegrazione del mercato unico è debole. La Commissione porrà alcune condizioni ai sussidi diretti: valuterà come viene  calcolato, se è indispensabile, e se i sussidi offerti dai paesi terzi sono reali, ma soprattutto se ci sono vantaggi per altri paesi in Europa, praticamente l’aiuto può essere concesso solo se c’è una cooperazione tra diversi stati Ue. Questo, significa andare a rafforzare le filiere già esistenti tra i paesi Ue, e quindi i loro centri più importanti.

Se per l’Italia sappiamo che la filiera della componentistica ormai serve soprattutto l’automotive tedesco, le produzioni tedesche come dimostrano le ricerche del fondo monetario internazionale, sono basate su filiere produttive che coinvolgono in primis l’Europa dell’Est. «Qualsiasi sostegno pubblico concesso a una regione ricca dovrebbe trainare altre regioni. Invece di lasciare solo piccole briciole per gli altri, dovremmo solo fare la torta più grande per tutti», dice Vestager. Per chi conosce il sistema produttivo europeo, però, questo non allontana affatto i rischi di frammentazione, mentre delinea una politica industriale completamente dettata dall’iniziativa degli Stati Uniti. 

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