Bergoglio ha imboccato la strada della radicalità. Un’onda mai cheta che ha travolto regole e consuetudini, stereotipi e certezze. Ha tenuto la sua rotta governando da monarca assoluto, seguendo sempre e solo il suo intuito
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Negli ultimi 12 anni papa Francesco non è stato solo la guida spirituale dei cattolici. Amato, odiato, venerato e criticato, Bergoglio è stato un titano della scena sociale e politica mondiale: un papa ribelle, un prete venuto dai confini del mondo che ha rovesciato il Vaticano come un calzino, un vescovo “insubordinato” che ha rimesso nel cuore della sua pastorale le parole di Cristo.
Per Francesco i poveri, gli ultimi e le periferie del mondo devono essere il vero, unico “centro” della missione della chiesa, che ha provato – a volte con efficacia, altre meno – a trascinare fuori da una crisi atavica.
Crisi che ha il suo focolaio proprio in Europa e negli Stati Uniti, culle di quel cattolicesimo “romano” da cui Bergoglio ha preso le distanze fin dal primo giorno del pontificato. Ecco: non si può comprendere il senso del potente e caotico papato appena terminato se si dimentica l’origine traumatica della sua ascesa.
Cioè le dimissioni storiche di Benedetto XVI, il teologo tedesco fiaccato dall’ingravescente aetate, ma soprattutto dagli scandali economici e della pedofilia che hanno travolto il suo breve regno. Il gesuita che sceglie a sorpresa il nome del poverello d’Assisi si è così caricato sulle sue spalle un’ecclesia devastata da lotte intestine e da una reputazione di organismo ormai marcio e decadente.
Per la sua missione Bergoglio imbocca così la strada della radicalità: colpire con opere e parole la “corrotta curia romana” (polarizzando la differenza tra il “papa buono” e i “cardinali cattivi”) e basare il pontificato sulla strategia del “moto perpetuo”.
Francesco è stato un’onda mai cheta che ha travolto regole e consuetudini, stereotipi e certezze, attraverso un movimentismo che spesso non ha avuto mete e obiettivi definiti, e che si è concentrato, oltre che sulle riforme – mancate – della burocrazia e della dottrina, soprattutto sulla postura da dare dalla sua nuova chiesa.
Che per Francesco deve aprirsi a tutti, con l’obbligo evangelico di dialogare con chi è stato da sempre escluso, attuando appieno i dettami del Concilio Vaticano II.
Il pontificato di Francesco ha creato speranze impensabili, aperto spiragli geopolitici (il viaggio a Cuba, lo storico incontro con Kirill, la fiducia malriposta nella Russia) spaccature profonde tra progressisti e conservatori, tensioni con molti episcopati nazionali, che hanno fatto ventilare ribellioni e scismi. Il papa ha tenuto la sua rotta governando da monarca assoluto, seguendo sempre e solo il suo intuito.
Con un’attenzione primaria ai messaggi sociali, religiosi e culturali da veicolare ai media, che ha gonfiato con un profluvio di interviste, apparizioni tv, libri, motu propri, che rendono il pontificato appena finito uno dei più complessi e contraddittori della storia contemporanea. Per capire davvero il peso dell’eredità di Francesco servirà dunque tempo e la giusta distanza, ma nessuno potrà mai dubitare della grandezza e del coraggio di chi ha tentato, con tutta la sua forza, di rimettere il sentimento della misericordia al centro di ogni cosa.
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