A pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto sugli abusi nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga dal 1945 al 2019, il documento più vicino all’accountability voluta da papa Francesco per contrastare la pedofilia nella chiesa cattolica fa già discutere. Il primo a rispondere è il papa emerito Benedetto XVI, che ritratta su un colloquio con un prete pedofilo, inizialmente negato, ma in realtà avvenuto, come prova il rapporto.

Dove termina la rendicontazione e iniziano le responsabilità del clero tedesco lo dirà ufficialmente l’arcidiocesi il 27 gennaio, visto che la procura di Monaco di Baviera vuole verificare se il dossier richiederà un accertamento da parte della magistratura. In oltre un anno di lavoro, le indagini basate sui colloqui con le vittime e le ricostruzioni della burocrazia diocesana, tra lettere d’archivio, email e deposizioni, hanno spinto i legali a valutare le procedure dell’arcidiocesi come poco o per nulla incisive nel trattare gli abusi perpetrati su 497 minori da 173 sacerdoti. à

Ma per capire la portata del documento commissionato due anni fa dall’arcidiocesi ai legali della Westpfahl Spilker Wast, va rimarcata una sostanziale differenza con il francese rapporto Sauvé o il precedente Studio Mgh, voluto dall’episcopato tedesco. Le conclusioni a cui approda il documento riguardano il carattere sistemico delle violenze nell’arcidiocesi, imprescindibile dal vero elemento chiave: gli insabbiamenti e la presunta lontananza del clero alle vittime.

L’assunto, così, giustifica l’ampio preambolo del rapporto, in cui sono definiti i margini globali della pedofilia oltre il caso tedesco a partire dagli anni Settanta: un decennio simbolico, in cui i primi abusi entravano nel lessico della stampa, superando il vincolo di segretezza imposto dall’istruzione pontificia Crimen sollicitationis del 1962.

In quegli stessi anni si attestano casi in Irlanda, Belgio, Paesi Bassi e Stati Uniti: il documento dedica una speciale menzione al primo caso noto, quello di Gilbert Gauthe, abusatore seriale nella diocesi statunitense di Lafayette su 40 minorenni. Il caso rivelerebbe come, malgrado i diversi contesti, un modus operandi uniforme da parte della chiesa di quegli anni, quando i trattamenti psichiatrici sui sacerdoti pedofili erano intervallati dai trasferimenti fra diocesi, con poco o nessun riguardo per le potenziali vittime di comportamenti che già i primi casi rivelavano come seriali.

Il mea culpa di Ratzinger

Nel documento torna un elemento già ritenuto il peccato originale della chiesa cattolica nel rapporto Sauvé: il clericalismo, qui inteso come una «caratteristica strutturale specifica […]  che porta il prete a dominare nelle interazioni sociali perché occupa una posizione superiore legittimata dalla consacrazione».

A prescindere dalla diocesi, l’abuso sessuale sarebbe, dunque, «una conseguenza di questo predominio». Da ciò, l’urgenza di un chiarimento sulla responsabilità personale dei leader della chiesa e la mole del rapporto, che pone sotto la lente d’ingrandimento le attività dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga a partire dalla guida di monsignor Michael Cardinal von Faulhaber (1917-1952) fino al cardinale Reinhard Marx, alla sua guida dal 2008.

L’attenzione precipua dei relatori si è, poi, focalizzata sul ruolo del cardinale Joseph Ratzinger e sulla sua presunta mala gestione. Nel rapporto sono cinque i casi in cui Ratzinger, arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982, non avrebbe agito in modo appropriato. L’analisi della sua condotta è messa in discussione dalla deposizione del papa emerito, che ammette non solo l’estraneità diretta a fatti riguardanti la gestione passata dell’arcidiocesi, ma anche la presunta ignoranza dei fatti.

 Su un caso, però, il papa emerito ha da poco ritrattato. Si tratta di un colloquio avvenuto nel gennaio 1980 su un sacerdote pedofilo, a cui venne prescritto un percorso di psicoterapia e la sua presunta integrazione in una parrocchia. Inizialmente, Benedetto XVI si era detto estraneo al colloquio, ma il rapporto menziona un verbale di quell’assemblea e una nota dell’ordinariato vescovile che lo smentiscono.

Ratzinger ha chiesto scusa per la sua dichiarazione, imputandone l’errore a una maldestra redazione delle sue parole. Per i relatori, però, la sua difesa non collimerebbe neppure con la gestione di altri casi. In particolare, i legali esprimono chiari dubbi in merito al cosiddetto «caso 40», quello di un sacerdote già condannato dalla metà degli anni Settanta a otto mesi di detenzione per abusi, poi messo in libertà vigilata.

Secondo una lettera contrassegnata come «strettamente riservata», sia l’arcivescovo che il vicario sarebbero stati informati della sua precedente condanna, ma ciò non avrebbe impedito il suo trasferimento in altre parrocchie e la nomina a cappellano. Il carattere recidivo dei suoi comportamenti si sarebbe, così, inevitabilmente ripresentato negli anni Ottanta a danno di alcuni chierichetti, fino al divieto del ministero parrocchiale.

Ratzinger ha sostenuto di non essere a conoscenza delle precedenti condanne del sacerdote, ma ciò striderebbe con l’email di un impiegato della segreteria diocesana datata 2012, dove è menzionato il colloquio tra il papa emerito e il sacerdote. Neppure considerare che in quegli anni la ricerca psichiatrica considerava la pedofilia curabile, non giustificherebbe la «mancanza di sensibilità e disponibilità a fornire informazioni allora da parte dell'arcivescovo cardinale Ratzinger», scrivono i relatori.

Il ruolo del vicario generale

La valutazione negativa su Ratzinger arcivescovo s’interseca con i dubbi espressi in merito alla gestione del suo sottoposto, Gerhard Gruber, vicario generale dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga dal 1968 al 1990, poi fino al 1993 ufficiale personale dell’ordinariato arcivescovile.

Durante il suo mandato, sono stati riportati almeno 34 casi di abuso da parte di chierici e, secondo la valutazione degli esperti, l’ex vicario generale ne avrebbe gestito in modo «legalmente errato o almeno inappropriato» almeno 23. L’accusa è partita tenendo conto degli atti raccolti in un fascicolo diocesano dal suo predecessore, il vicario generale Defregger, nel cosiddetto Archivium Secretum Curiae: un faldone chiuso sotto chiave che raccoglieva tutti i casi di abuso noti nella diocesi, e che l’allora vicario avrebbe dovuto conoscere.

Che Gruber fosse al corrente di questi abusi lo confermerebbe il cosiddetto «caso 6», iniziato negli anni Cinquanta, quando il tribunale competente condannò un sacerdote a tre anni e sei mesi di reclusione per abusi su bambini e giovani.

Uscito dal carcere a metà degli anni Cinquanta, dopo aver svolto il suo ministero nelle case di riposo per quasi 20 anni, il sacerdote è stato poi spostato in un’altra diocesi, dove avrebbe abusato di un adolescente nel 2010, come attesta un altro rapporto diocesano. In questo caso, Gruber non avrebbe fatto nulla per arginare le violenze, malgrado fosse stato informato della condotta criminale del sacerdote da un parroco.

La valutazione dell’operato di Ratzinger, dunque, va ampliata a tutto l’organigramma diocesano, reo di non aver unito atti così scottanti, nonostante fossero nel medesimo archivio.

Marx assolto a metà

Il rapporto non fuga dubbi sulla gestione dell’arcidiocesi da parte del cardinale Reinhard Marx perché la valutazione positiva sul suo operato nel contrasto ai casi emersi presso il collegio Canisius di Berlino non dipana la matassa sulla sua gestione prima del 2010.

Sotto la sua guida, sono emersi 86 casi sospetti, e i relatori ritengono che almeno in tre casi non sia stato coerente con la tolleranza zero da lui propugnata. La valutazione degli esperti è anticipata da un’ampia disamina delle dichiarazioni del porporato, compresa l’ammissione che il suo impegno primario nella diocesi non avrebbe avuto natura amministrativa, bensì esclusivamente pastorale.

Ciononostante, per i legali ciò non giustificherebbe la linea morbida attestata in alcuni casi: «La responsabilità morale ultima di una diocesi spetta al suo vescovo. Indipendentemente da ciò, il Vicario generale, dotato di corrispondenti autonomi poteri, è responsabile dell'operato dell'Ordinariato» recita il documento.

Per i relatori, Marx avrebbe dovuto essere a conoscenza di ogni segnalazione, secondo le linee guida della Conferenza episcopale tedesca, che dal 2013 assegnano al vescovo diocesano il ruolo centrale nella gestione di ciascun caso.

Sistema di irresponsabilità

Il rapporto non solo tiene conto delle figure degli arcivescovi, ma anche dei vicari generali e di tutti i funzionari diocesani deputati negli anni a farsi carico delle violenze note. Per ammissione degli stessi relatori, il modo di affrontare i casi di abuso è mutato negli anni: il periodo più buio restano gli anni Novanta, perché si rilevano “buchi” nella rendicontazione dei casi, come nella diocesi di Aquisgrana, mentre si riconosce anche il miglioramento dei protocolli di contrasto alla pedofilia a partire dal 2010.

La conclusione dei relatori è dunque netta: il modo di affrontare gli abusi da parte dell’arcidiocesi di Monaco è deplorabile perché «mancava una chiara definizione dei rispettivi poteri e delle responsabilità connesse. Così è nato un sistema di irresponsabilità».

Una nota singolare è dedicata all’analisi dei limiti del celibato sacerdotale. Sebbene vada esclusa una correlazione strettamente logica, i relatori del testo deducono che il celibato possa essere un fattore di rischio particolarmente importante se non viene conciliato con la maturità sessuale dei seminaristi e i sacerdoti, specialmente coloro a stretto contatto con bambini: «Per molti religiosi il celibato è il posto giusto, ma rappresenta un ideale irraggiungibile che porta a isolamento emotivo, solitudine, depressione e malattie mentali. Potrebbe anche indurre a varie forme di disfunzione psicosessuale».

È l’assist perfetto a chi chiede di abolire il celibato tra i preti: l’ultima parola spetterà al pontefice, ma non all’emerito.

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