«Il giorno in cui i Talebani sono entrati a Kabul dovevo fare l’esame di maturità che aspettavo da una vita. Io e la mia famiglia siamo dovuti fuggire di corsa, e con me non sono riuscita a portare nulla, solo qualche libro».

La speranza ingenua di una ragazzina afghana che l’incubo finisse rapidamente e lei potesse concludere il suo ciclo di studi è stata frustrata per sempre. Fariba (il nome è di fantasia) è scappata assieme alla sua numerosa famiglia composta da 14 persone, tra cui 7 bambini, tre nuclei familiari, senza neanche il tempo di pensare. Il problema per lei, oltre a essere donna e studentessa, è che fa parte di una famiglia cristiana di origine turkmena: un concentrato di fattori impossibili da conciliare con l’autoproclamato emirato.

Ora sono tutti a Roma, miracolosamente in salvo dopo un percorso rocambolesco che ha visto protagoniste le ragazze della famiglia che con i loro cellulari hanno chiamato aiuto da una cantina. Il resto lo hanno fatto Silvia Costa, ex europarlamentare, lo scrittore afgano residente a Roma Alì Ehsani e la Fondazione Meet human che si è offerta di ospitarli.

Una fede nascosta

«Tempo fa – spiega Asima la più anziana del gruppo, madre e nonna di vari componenti – siamo entrati in contatto con Alì e, saputo che era cristiano, gli abbiamo chiesto di inviarci video di funzioni religiose cattoliche. Ci riunivamo in segreto e le seguivamo con grande attesa, erano le nostre uniche possibilità di professare la nostra fede. Un giorno, per vedere meglio, abbiamo deciso di collegare il cellulare al televisore. Purtroppo, proprio mentre i Talebani entravano a Kabul, una persona deve aver sentito o visto le immagini della messa e ha fatto la spia».

Il marito è stato sorpreso al lavoro e subito arrestato, da allora di lui non si hanno più notizie. Tutti i restanti componenti della famiglia, compreso l’enorme pericolo che stavano correndo, sono fuggiti trovando riparo in una cantina. «Non siamo riusciti a portare praticamente nulla, niente cibo, poca acqua, siamo rimasti nascosti per 4 giorni e 4 notti e davamo delle gocce ai bambini più piccoli per farli dormire ed evitare di farli piangere o urlare perché ci avrebbero sicuramente scoperto. Pagavamo una persona per farci ricaricare i cellulari».

Una scelta determinante. Con gli smartphone, le ragazze della famiglia hanno contattato Alì a Roma e gli hanno spiegato la situazione. Lo scrittore ha chiamato Silvia Costa chiedendole di intercedere presso le autorità e provare a inserire la famiglia nella lista dei civili da mettere in salvo. «Mi ha chiamato di notte e ho subito chiesto di farmi inviare foto e documenti, poi ho contattato gli Esteri, la Difesa e il sottosegretario Gabrielli e fatto presente che erano in gravissimo pericolo perché in maggioranza donne e tutti cristiani segnalati ai Talebani. Dopo un percorso rocambolesco e complicatissimo fatto di violenze all’aeroporto, divieti e continui contatti con me, Alì e le autorità italiane, grazie ovviamente a una collaborazione e una comprensione assolute di tutti gli interlocutori chiamati in causa qui e in Afghanistan, siamo riusciti a farli partire».

L’abbraccio di Bergamo

Bisognava, però, trovare chi li accogliesse. E qui entra in gioco la Fondazione San Michele arcangelo, che a Bergamo si occupa da oltre 25 anni di numerose realtà formative ed educative e che, con l’ultima emanazione Meet Human, nata appena un anno e mezzo fa, ha avviato progetti di cooperazione internazionale.

«Il nostro fondatore e presidente Daniele Nembrini – spiega Francesco Napoli direttrice delle relazioni istituzionali – ha letto dell’appello di Alì per salvare la famiglia apparso su Asia News a ridosso di Ferragosto e si è immediatamente attivato per mettersi in contatto con lui. Riuscito finalmente a sentirlo, ha messo a disposizione subito la nostre risorse per garantire ospitalità ai tre nuclei famigliari a Bergamo una volta fossero giunti in Italia».

Saranno accolti in appartamenti nella città lombarda e inseriti tutti in percorsi formativi, educativi e di avviamento al lavoro. «Faremo una valutazione più approfondita delle loro capacità e dei desideri e, grazie anche al canale di donazioni che abbiamo aperto allo scopo, riusciremo a seguirli nella speranza che un giorno, se lo vorranno, possano tornare in un Afghanistan diverso e pacificato».

Un incubo che ritorna

I Talebani, fino a qualche settimana fa, costituivano un brutto ricordo per molti degli adulti e un corpo estraneo e sconosciuto per una fetta enorme della popolazione composta da under 20 cresciuta senza di loro. L’impatto per i giovani è totale oltre che drammatico. «Io ero molto piccolo quando se ne sono andati – dice Farhad, un genero di Asima – e fortunatamente non avevo molti ricordi. Quando ci siamo resi conto che stavano avanzando senza ostacoli, la sensazione prevalente è stata lo shock. Non ci aspettavamo che arrivassero a Kabul e conquistassero tutto il potere così presto. È sempre stato complicato progettare un futuro da noi, specie per chi appartiene a minoranze religiose o etniche, ma ora è impossibile. La violenza senza motivo, l’esclusione delle donne da tutto, sarà una situazione orribile. Con Karzai le cose si stavano mettendo meglio, possiamo dire che c’è stato un cambiamento netto, un progresso evidente. Ma già con l’avvento di Ashraf Ghani (presidente dal settembre 2014 fino alla caduta di Kabul ndr) siamo andati peggiorando. Ha fatto solo i suoi interessi e aumentato la corruzione».

Nelle catacombe

Essere cristiani in un paese come l’Afghanistan è sempre stato difficile. Anche durante i governi di Karzai e di Ghani, la dimensione catacombale era la normalità. Non ci sono possibilità di espletare liberamente il culto, riunirsi, indossare simboli, attendere a funzioni, neanche cantare. Nel caso della famiglia giunta in Italia, così come per molte altre, l’appartenenza è tramandata oralmente e si nutre di contenuti minimali. Un grande riferimento è il papa, di cui si leggono e, nei limiti del possibile, vedono e ascoltano interventi. E poi si vive convinti nell’intimo che la vera diversità con il contesto, specie ora che sono tornati al potere i Talebani, sia il rifiuto della violenza.

«Per noi – riprende Asima – è importante il rispetto, il perdono. Non condividiamo nulla con chi usa la violenza per imporre qualcosa». «Viviamo da sempre con il terrore di venire scoperti – racconta Aliriza, 33 anni, uno dei figli – e abbiamo varcato per la prima volta la soglia di una chiesa qui a Roma. Non c’è alcuna possibilità di pregare per noi, per le donne, poi, neanche a parlarne».

Fattima, 26 anni, la ragazza che con il suo smartphone ha deciso le sorti di tutta la famiglia e che, di fatto, ha sostituito il padre scomparso nel guidare l’intero nucleo nel momento più difficile, è ancora molto scossa. «Di notte mi sveglio con gli incubi. In quei 4 giorni abbiamo visto la fine avvicinarsi, a ogni minimo rumore scattavamo terrorizzati. Se penso a cosa abbiamo rischiato, non riesco a respirare». Le notizie di donne vendute ai confini con Pakistan e Iran – i due paesi a cui l’occidente vorrebbe chiedere di ospitare i profughi in fuga, in particolare le donne – che riferisce Alì Ehsani, contribuiscono a aumentare la sensazione di terrore.

La percezione dello scampato pericolo e della possibilità di un nuovo inizio, dopo una settimana dall’arrivo a Roma, fa ancora fatica a emergere. Si legge negli occhi di tutti un velo di profonda tristezza. La gratitudine verso chi li ha aiutati, la felicità di essere salvi si mischia alla malinconia per la perdita di tutto, alla paura per quanto sarebbe potuto accadere a loro e sta succedendo a tanti concittadini e all’angoscia per il marito e padre. «Non abbiamo più nessuna notizia da molti giorni. Che fine potrà aver fatto in mano ai Talebani informati della sua fede?»

«Mi sento afghano e già italiano – si fa coraggio Khaled, un ragazzino di 16 anni con ancora i lividi delle botte prese in aeroporto – ora posso progettare il mio futuro e studiare. Spero di arrivare a un punto tale da essere io stesso in prima persona ad aiutare gli altri e il mio paese».

 

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