«Mi piaceva studiare, stare con gli altri ragazzi e imparare la vostra lingua ma la mia famiglia aveva bisogno di me e ho dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare».

Sono le prime parole di Sonya, una ragazza di origine indiana maggiorenne da poche settimane e residente a Sabaudia, in provincia di Latina.

Ha occhi vivaci, un sorriso accogliente e una volontà di ferro nel superare gli ostacoli che ogni giorno incontra in questo paese. Il primo, tra questi, è la povertà, che fagocita le sue aspettative e i suoi progetti di vita. Poi il lavoro, che ancora troppo spesso per gli immigrati significa sfruttamento, incidenti, a volte mortali, e il silenzio imposto dai padroni italiani per non avere problemi con le forze dell'ordine.

Sonya abita nel residence Bella Farnia Mare insieme a centinaia di altre famiglie indiane e ad alcune decine di famiglie italiane, a ridosso della strada Llitoranea che conduce verso i campi agricoli, il Parco nazionale del Circeo e le dorate spiagge di Sabaudia.

La sua storia disvela la diffusa retorica di uno sviluppo economico in corso in questo paese che d’un sol colpo ha cancellato la povertà, l’emarginazione e lo sfruttamento di migliaia di italiani e immigrati.

Questa giovane donna indiana abita con il padre, bracciante precario alla quotidiana ricerca di un posto di lavoro in una delle 7.000 aziende agricole locali. Ha un fratello di sedici anni. Anche lui ha lasciato la scuola per cercare lavoro nelle campagne circostanti. Lavoro che trova con grande difficoltà e così si dedica alla cura della loro sorella di 4 anni.

E poi c'è la mamma, anche lei bracciante regolarmente precaria e sfruttata. Solo che questa donna, ancora nel fiore dei suoi anni, da circa 4 mesi è praticamente immobile sull’unico letto di casa. Un grave incidente sul lavoro le ha infatti cambiato la vita, forse per sempre.

La storia

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Era impiegata in una azienda locale, di quelle che fatturano milioni di euro, gestite da manager sofisticati che parlano di sviluppo e di mercato, che esportano i relativi prodotti a livello internazionale e impiegano ogni giorno centinaia di lavoratori e lavoratrici. Altro che sfruttamento per imposizione del mercato.

Molte aziende sfruttano pur fatturando milioni di euro ogni anno. Pagano i lavoratori e le lavoratrici circa 4 euro l’ora per farli lavorare quasi tutti i giorni del mese, a volte anche con turni notturni, sabato e domenica compresi.

Le misure di sicurezza imposte per legge sono un ostacolo allo sviluppo dei loro profitti e poi, in fondo, i lavoratori impiegati sono “solo” immigrati che parlano male l’italiano, non conoscono le norme vigenti, non sono sindacalizzati, sono condizionati dalla legge Bossi-Fini che obbliga ad avere un regolare contratto di lavoro per rinnovare il proprio permesso di soggiorno anche quando quel contratto è la trappola usata dai padroni per violare i loro diritti fondamentali.

La madre di Sonya aveva infatti un regolare contratto di lavoro, eppure era sfruttata, sotto il giogo del padrone dell’azienda che, peraltro, non le ha mai passato mascherine, caschi, stivali e scarpe antinfortunistiche. «Le hanno comprato solo i guanti, e neanche sempre» dice Sonya mentre cerca di sollevare il cuscino della mamma. E così il 22 ottobre del 2021, durante la consueta giornata di lavoro in azienda, quella donna cade da un’altezza di circa 4 metri, sbatte rovinosamente la schiena in terra e rischia l’immediata paralisi.

«Ho sentito le sue urla perché lavoravo anche io in quella azienda – racconta Sonya rivivendo quei terribili momenti – e mi si è fermato il cuore. Sono andata a soccorrerla e l’ho trovata a terra che piangeva. Pensavo stesse morendo. L’ambulanza è arrivata dopo poco e l’ha portata prima in ospedale e dopo qualche giorno a casa. Io ho continuato a lavorare fino al 9 novembre scorso quando ho lasciato il lavoro per assistere mia madre».

Lo sfruttamento nelle campagne

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Ma Sonya lavorava alle stesse condizioni della mamma? No, peggiori. «Avevo diciassette anni quando ho iniziato a lavorare dentro quella azienda. Avevo un contratto che andava dal 10 maggio al 31 dicembre del 2021, solo che lavoravo 14 o 18 ore al giorno. A volte iniziavo alle 7 del mattino e finivo alle 22 di sera. Mi capitava di non capire più se era giorno o notte. Lavoravo con altre donne, spesso indiane, rumene e qualche italiana. Avevamo solo un’ora di pausa durante la quale pranzare, andare in bagno e riposare, per poi ricominciare a lavorare. Per me in quei mesi non esisteva altro che il lavoro».

Una storia di ordinario sfruttamento in un paese in pieno boom economico. «Ho lavorato 6 mesi e non sono mai stata pagata – continua – mai un euro, niente. Neanche dopo l’incidente di mia madre. Anzi, nessuno ci ha mai chiamate, anche solo per sapere come stavamo. È stato un incubo. Mi sono sentita una schiava».

Sonya però non si è arresa. Sa che per far rispettare i suoi diritti deve lottare e non tacere. Per questa ragione, con tutta la famiglia si è rivolta al progetto “Dignità Joban Singh” di Tempi Moderni e all’associazione Progetto Diritti. Ha raccontato la sua storia, seguito i consigli dei legali e autonomamente richiesto all’azienda il pagamento di quanto le era dovuto.

Il primo risultato ottenuto, per suo esclusivo merito, è stato il riconoscimento delle retribuzioni mancate che ha ricevuto non appena compiuti 18 anni, dopo aver aperto il suo primo conto corrente. Il compenso pagato non comprende però né gli straordinari né le ore lavorate non previste dal contratto collettivo ma ha ritenuto di essere a posto così.

«Quando sono andata a prendere la mia busta paga ho incontrato il padrone e non mi ha rivolto la parola. Non mi ha chiesto nulla, neanche scusa» dice con un velo di tristezza negli occhi. La madre infortunata sta invece portando avanti le pratiche Inail per l’invalidità ed è contestualmente pendente un’indagine per lesioni alla procura di Latina. «Per il mio futuro? Spero solo di trovare un lavoro in regola ma senza sfruttamento, magari in qualche magazzino, e vedere mia madre sorridere e camminare».

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