«Al Viminale, ancora una volta, non ci ha accolti nessuno», racconta Siddique Nure Alam detto Bachu, uno dei portavoce della comunità bengalese di Roma e organizzatore del presidio che si è tenuto sabato 6 novembre in piazza dell’Esquilino, a due passi dalla sede del ministero dell’Interno. Tra i manifestanti molti gli esponenti della comunità indiana e bengalese impiegata nei campi di Latina. Le rivendicazioni della piazza riguardano ancora una volta i permessi di soggiorno e le problematiche legate alla sanatoria del governo giallorosso, che dopo un anno e mezzo ha regolarizzato solo il 30 per cento dei richiedenti.

«Le prefetture continuano a rigettare le richieste dei 220mila lavoratori senza documenti che l’anno scorso hanno sperato di emergere dall’invisibilità. Per di più, circa 400mila lavoratori senza documenti non hanno nemmeno potuto presentare la richiesta di emersione per via di clausole eccessivamente restrittive». La problematica è estesa, tiene a sottolineare Bachu, e non può essere risolta da un incontro con i singoli prefetti o altre autorità intermedie che non hanno il potere di risolvere i malfunzionamenti di una misura per molti versi fallimentare.

Sanatorie poco straordinarie

Le procedure di regolarizzazione straordinaria sono uno degli strumenti in cui emerge in modo più clamoroso l’ipocrisia del sistema di gestione del fenomeno migratorio. In Italia, a partire dal 1986, le sanatorie si sono susseguite in maniera costante. La prima fece emergere 116mila persone, e solo quattro anni dopo una seconda ne regolarizzò 215mila. Da allora, con una cadenza quasi regolare, queste procedure presentate come emergenziali ed eccezionali dai governi di tutti i colori sono diventate la normale modalità con cui migliaia di lavoratori impiegati in nero sperano di regolarizzare la loro posizione.

Si stima che un terzo degli immigrati irregolari presenti oggi in Italia abbia ottenuto un permesso di soggiorno grazie a questo tipo di misura: dal 1986 sarebbero un milione e mezzo. «La sanatoria è una toppa, non ha una visione politica, anzi, ti racconta proprio che non ce l’ha. Funziona come i condoni edilizi: si costruisce abusivamente e si aspetta un condono. Il fatto è che qui si parla di persone e che la loro clandestinità è causata dal progressivo smantellamento dei canali di accesso regolare per lavorare in Italia».

«Mentre aspettano un permesso di soggiorno la vita degli immigrati irregolari scivola sempre più nel baratro della precarietà quando va bene, in quello della miseria quando va male», racconta Pietro Fragasso, presidente della cooperativa sociale Pietra di Scarto, che nelle campagne foggiane promuove una filiera agroalimentare equa, impiegando lavoratori immigrati sottratti ai caporali.

«L’equazione immigrato-criminale è sempre più consolidata», aggiunge Fabrizio Coresi, policy advisor sul tema migrazione per l’ong Action Aid, «per questo quando si parla di sanatoria si grida allo scandalo e sembra si tratti di un meccanismo premiale nei confronti di chi arriva senza documenti. In realtà è uno strumento utilizzato dai governi in tutti i paesi europei per tamponare i danni causati da politiche migratorie inadeguate».

Politiche sbagliate

«Parlare di frontiere aperte o rilascio di permessi di soggiorno per attesa occupazione è estremamente sconveniente dal punto di vista elettorale perché l’immigrazione è sempre raccontata come emergenza e invasione. Ma l’immigrato non è un’emergenza, è una presenza. E lo è da molti anni. Anziché pianificarne l’arrivo, il collocamento e la tutela all’interno del tessuto sociale e del mercato del lavoro, si relega alla clandestinità, salvo poi tamponare con misure sporadiche e inefficaci».

La maggior parte dei problemi legati all’immigrazione, tanto reali quanto percepiti, derivano dalla difficoltà di arrivare in Italia in maniera regolare. Ad oggi gli accessi legali sono regolati dal decreto flussi, un provvedimento con il quale il governo stabilisce ogni anno le quote di ingresso dei cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro. Ma le cifre sono irrisorie: intorno ai 30mila ingressi autorizzati all’anno, un numero non adeguato ai bisogni produttivi del mercato italiano e alla pressione sulle frontiere da parte di chi tenta di lasciare il proprio paese.

Anche le specifiche settoriali lasciano a desiderare: dal 2012 per esempio non ci sono quote di ingresso per la figura delle badanti. Nonostante l’enorme bisogno di questa categoria di lavoratori – che in Italia sono oggi un milione e 655 mila, al 77,3 per cento stranieri, e si stima saranno 500mila in più entro il 2030 secondo gli ultimi dati Censis – non c’è un modo per entrare in Italia regolarmente a svolgere questo mestiere.

In uno scenario del genere, il diritto d’asilo rappresenta una delle poche possibilità di accedere legalmente in Italia. Negli ultimi anni però, anche a causa dei decreti Minniti e Salvini che hanno ulteriormente ostacolato la procedura, il numero di persone che accedono in Italia con questa modalità è estremamente limitato. Secondo il report della fondazione Migrantes, nei primi otto mesi del 2020 sono stati riconosciuti circa 5.900 benefici fra status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione speciale: nel complesso, ha ottenuto uno dei tre riconoscimenti appena un richiedente asilo su cinque

Gli effetti sull’economia

I dinieghi delle richieste di protezione speciale sono uno dei fattori che hanno determinato l’aumento degli stranieri in condizione di irregolarità in Italia, che sono costretti ad accettare di lavorare in nero e senza alcuna tutela. Oltre ad essere l’ennesima negazione dei diritti, l’irregolarità si ripercuote sull’economia del paese, che perde così potenziali contribuenti. Già qualche anno fa l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri si era espresso sulla necessità di allargare le modalità di accesso regolare per mantenere il nostro sistema di protezione sociale, minato dalla bassa natalità e dal progressivo invecchiamento della popolazione, oltre che dal numero crescente di italiani che decidono di emigrare.

Secondo la 31ª edizione del Dossier statistico immigrazione, il rapporto curato dal Centro studi e ricerche Idos, le entrate che gli stranieri regolari hanno assicurato alle casse dello stato sono di 29 miliardi di euro tra tasse, contributi e costi di pratiche varie, mentre le voci in uscita a loro riservate si attestano sui 25 miliardi. Sarebbero quindi quattro miliardi di netto positivo, che aumenterebbero sensibilmente con l’emersione degli irregolari impiegati in nero.

Paradossi aziendali

Un altro tema è quello che riguarda le aziende. Il bisogno di manodopera non particolarmente specializzata non si avverte solo nelle campagne dove mancano gli stagionali o nelle case degli anziani che hanno bisogno di essere assistiti, ma anche nei settori della logistica e dell’edilizia. Emblematico il caso della Number 1 Logistics. L’azienda italiana leader nel settore della grande distribuzione ha formato e assunto a tempo indeterminato 160 richiedenti asilo ma ne ha persi una buona parte perché la loro pratica, dopo essere rimasta incagliata nelle maglie della burocrazia anche per due o tre anni, è culminata in un diniego e di conseguenza in un avviso di espulsione.

Persone quindi del tutto integrate nel sistema produttivo italiano, con un lavoro stabile e legami fissi, scivolano nuovamente nella clandestinità, mentre le aziende sono costrette a ripartire da zero. Sono i paradossi a cui ha portato una politica che se all’inizio poteva essere liquidata come ipocrita, presa ad assecondare umori e malumori utili ai fini elettorali, oggi non può che essere ritenuta colpevole di un sistema che non funziona per nessuno.

Il risultato è il bracciante che nelle campagne raccoglie pomodori per tre euro all’ora e vive nei ghetti di lamiera, la badante reclusa in casa dai datori di lavoro, ma anche il facchino che lavora sotto caporale nei capannoni del nord Italia. E il mercato del lavoro nero si regola di conseguenza, adeguando i salari al grado di disperazione di cui può approfittare.

È chiaro che provvedimenti straordinari ed emergenziali, come si raccontano essere le sanatorie, non bastano a regolare un fenomeno migratorio che invece è ormai ordinario, anche se sregolato. Ancor meno quando sono pensate male e messe in atto peggio, fra ritardi e arbitri della pubblica amministrazione. Ciò che però le «grandi regolarizzazioni» potrebbero insegnare è che un migrante in regola è un lavoratore che contribuisce alla crescita del paese.

La proposta di legge

La rete Ero Straniero, promossa dai Radicali italiani, sindacati e ong, ha presentato alla Camera dei deputati una proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre un meccanismo di regolarizzazione a regime (e cioè sempre accessibile) per comprovata integrazione o per attesa occupazione, insieme all’introduzione di nuovi meccanismi di ingresso per lavoro, superando sanatorie e procedendo con un intervento a lungo termine che favorisca legalità e integrazione, oltre che introiti.

Perché se è vero che a tenere i conti dell’utilità e dei potenziali incassi si rischia di fare il gioco di chi da decenni costruisce sull’immigrazione una narrazione fatta di grida all’invasione e accuse di parassitismo, è vero anche che queste grida, ignobili sul piano etico e sgradevoli su quello estetico, sono false se si guarda ai dati, ed è quindi urgente smentirle. La verità è che per concedere ai lavoratori stranieri residenti in Italia un permesso di soggiorno basterebbe attenersi ai principi di giustizia ed equità che dovrebbero muovere la coscienza dei cittadini di ogni stato che si dica democratico.

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