Ho amiche e amici che piuttosto che entrare in un ristorante della catena Dispensa Emilia digiunerebbero per solidarietà culinaria verso la tradizione. Ma non fanno testo: sono emiliani e romagnoli, convinti che una tigella o una piadina “di catena” sia un ossimoro gastronomico. Eppure, la catena della tigella o crescentina, per meglio dire - che non è un franchising - con sede a Modena ha realizzato nel 2024 quasi 60 milioni di fatturato, impiegando quasi mille dipendenti. A colpi di sfoglia e aperture in zone strategiche come stazioni, aeroporti e centri cittadini, la catena La Piadineria (con sede in provincia di Brescia) è arrivata a più di 400 locali in Italia.

«La Piadineria: prodotto artigianale, processi industriali», come si legge sul loro sito, è l’ossimoro giusto per questa epoca. «L’azienda ha saputo affinare e sviluppare attorno alla piadina un modello di business efficiente e redditizio dal punto di vista logistico, organizzativo e della gestione economico finanziaria. Tutto è centralizzato: i punti vendita distribuiti sul territorio ricevono gli impasti e le farciture, per preparare una piadina che è di grande qualità, con gli stessi sapori e lo stesso gusto, in ogni parte di Italia. La Piadineria riesce a supportare un modello centralizzato di gestione e di distribuzione, che risulta essere la migliore garanzia sulla qualità e bontà del prodotto finale, e rende il format effettivamente scalabile».

Il franchising, quell’accordo che permette a un imprenditore di aprire un’attività usando marchio, fornitori e pubblicità di un brand già noto, sembra essere una macchina che continua a marciare anche quando l’economia arranca. Secondo i dati di Assofranchising, nel 2024 il settore ha generato 35,8 miliardi di euro di fatturato, +5,4 per cento rispetto all’anno precedente.

Il supermercato dei sogni imprenditoriali

Camminando al Salone del Franchising Milano, sembrava di entrare in un supermercato di sogni imprenditoriali: altre piadinerie, bar “green”, sushi, lavanderie automatizzate, palestre da 50 metri quadri. Perfino le immortali agenzie di viaggi. Tutti con la stessa promessa: “Basso investimento, alto ritorno”. E infatti le file davanti agli stand segnalavano un certo interesse da parte di volenterosi franchisee.

Le insegne attive in Italia - cioè i franchisor - sono 931, i punti vendita (gestiti dai franchisee) sono oltre 67.000. È un settore che cresce mentre molti negozi indipendenti chiudono o si trasformano in affiliati, e che promette all’imprenditore (il più delle volte improvvisato) di ridurre l’incertezza e inserirsi in un modello che sembra non conoscere crisi. Il franchising – in teoria – offre formazione, marketing, forniture centralizzate, un logo già conosciuto.

Non sempre le promesse però vengono mantenute. Il franchising dovrebbe essere un sistema in cui si vince entrambi, chi concede la licenza e chi la noleggia. La realtà è che spesso il franchisee rischia molto di più del franchisor. Le royalty mensili, le fee d’ingresso e l’allestimento iniziale possono superare facilmente i 100.000 euro. Se il locale “gira” bene, entrambi guadagnano. Se non lo fa, il franchisee resta intrappolato in un contratto rigido, costretto a pagare le fee anche quando gli incassi non coprono i costi.

Lo spettacolare crollo della rete di Domino’s Pizza, sbarcata in Italia nel 2015 con l’obiettivo di aprire 800 punti vendita, ma chiusa nel 2022 con poche decine di punti attivi, sta lì a testimoniare che non sempre un ottimo brand è un passpartout per il successo.

Il potere di acquisto della zona in cui si apre, i gusti locali, la concorrenza influenzano la scommessa del franchisee. Spesso ci si ritrova con troppi locali simili, troppi format indistinguibili, che non hanno certo la notorietà e l’attrattività delle catene principali. L’affiliato rischia di essere l’ultimo anello di una catena che si regge su margini sottili.

Eppure, la fiducia nel modello resta altissima: oggi tutte le catene (cibo, abbigliamento, palestre, cover per smartphone) hanno un modello di affiliazione disponibile per neo imprenditori volenterosi. Anche in settori impensabili: come Taffo Funeral Services, che permette di aprire un’agenzia di pompe funebri con 25mila euro di investimento iniziale e un immobile adatto in una città di almeno 40mila abitanti, sperando che il marketing ironico e virale che ha reso celebre il brand sia di traino a un settore notoriamente stabile, ma con una concorrenza locale intensa.

Il motivo di questa tenuta è, paradossalmente, psicologico. Il franchising funziona perché trasforma l’imprenditore in un consumatore e il consumatore in un imprenditore: vende una formula, un brand, e tutto sommato, semplicità. Offre l’illusione del rischio controllato, in tempi in cui il caos economico sembra prevalere. «Apri con noi, sarai indipendente ma non sarai solo»: una promessa che risuona perfettamente in un’epoca in cui «essere imprenditori di sé stessi» è diventato sinonimo di successo, ma spesso si traduce in una libertà a orario continuato, con la testa dentro un business che non si è mai davvero liberi di cambiare.

L’autenticità standardizzata

Il paradosso è che più noi italiani ci scandalizziamo (siamo dei maestri in questo, soprattutto online) per queste industrializzazioni della tradizione, più sembriamo frequentare questi luoghi: ci piace dichiarare “mai in una catena”, ma (statisticamente) ci piace di più sapere esattamente cosa troveremo nel piatto, che è in fin dei conti la principale promessa del franchising al consumatore.

Nei sondaggi, gli italiani dichiarano di preferire l’autenticità, i prodotti locali, le botteghe di quartiere. Nessuno fa meglio nel chiedere tutele per i prodotti tipici: tra DOP (Denominazione di Origine Protetta), IGP (Indicazione Geografica Protetta) e STG (Specialità Tradizionale Garantita) abbiamo 890 prodotti italiani “garantiti” dall’Europa. Contro 767 dei francesi e 378 degli spagnoli.

Poi però i numeri raccontano altro: il franchising rappresenta, sostiene Assofranchising, circa l’1,8 per cento del Pil.

Il consumatore si muove tra due bisogni: quello di scoprire “qualcosa di vero” e quello di evitare brutte sorprese. Vorrebbe un menu “genuino”, ma non vuole attendere oltre 20 minuti. Vuole valorizzare l’artigianalità, ma non vuole avere sorprese sul conto. Anzi, se riesce a sfruttare la serata delle costine barbecue al 30 per cento di sconto, ancora meglio. Il marketing del franchising è abilissimo nello sfruttare le nostre debolezze.

E così, mentre a parole continuiamo a difendere la trattoria “di una volta”, basta guardare i centri commerciali, le stazioni e le vie pedonali delle città italiane per capire chi ha vinto. Il franchising è diventato il linguaggio architettonico della prevedibilità, la scenografia di un’Italia che ha sostituito la “zdoura” romagnola con la centralizzazione produttiva per la piadina perfetta.

Alla fine, anche chi giura che mai andrebbe in un franchising a cena, prima o poi ci finisce, magari per una coda in autostrada o una serata diversa dal solito. Vuoi perché è facile parcheggiare o perché c’è il menu baby con le matite colorate o semplicemente perché – con un locale affiliato ogni mille abitanti – ormai è quasi impossibile evitarli. È lì, in quella prevedibilità di fondo – mentre facciamo finta di credere alle piadine “autentiche” o alla bistecca “al vecchio west” – che il franchising trova la sua forza, e insieme il suo limite: un mondo senza brutte sorprese, ma anche senza grandi scoperte.

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