Il mio telefono ogni tanto prende la linea tunisina arretrando, così, di un’ora rispetto all’orario della nave. È l’unico di tutti gli apparecchi presenti. Non sempre mi ricordo di questo. Lunedì sera, stavo per mettermi a letto e non l’ho fatto perché erano appena le 9, a detta del cellulare. E così l’equivoco è proseguito fino alla mattina seguente quando salgo nello spazio comune e la luce è troppo forte, il sole troppo alto e i miei compagni troppo attivi: erano le 7 e la guardia sarebbe dovuta cominciare alle 6. Esordisco con un «Que verguenza!», ottenendo dagli altri un cenno di consenso.

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La vita di bordo è fatta di piccoli gesti cortesi necessari a mantenere sempre un buon clima di collaborazione: si offrono agli altri caffè e tè quando sono pronti, cibo quando lo si prepara e la frutta quando la si taglia. È evidente che nessuno voglia turbare quell’equilibrio che potrebbe mettere a rischio le operazioni stesse di soccorso. Pensavo esattamente a questo quando, mentre navigavamo, abbiamo incontrato un’imbarcazione in difficoltà martedì mattina intorno alle 12.

Proprio grazie a questa atmosfera tutto si è concluso in breve tempo: ventitré persone sono state tratte in salvo e tra loro quattro bambini e una donna. Hanno detto di provenire dalla Tunisia, in linea con le statistiche che vedono quel paese come il primo da cui arriva chi, in questo periodo, attraversa il Mediterraneo centrale. E stando ai dati del Ministero dell’Interno ciò corrisponde al 28% del totale. Come con gli altri soccorsi effettuati sabato, anche in questo caso è stato fondamentale l’intervento della Guardia Costiera italiana, che ha portato a bordo della propria imbarcazione le persone facendole sbarcare, poi, a Lampedusa.

Prima del loro arrivo abbiamo trascorso una trentina di minuti accanto alle persone incontrate che viaggiavano su una barca piccolissima di colore bianco completamente sovraccarica. Sembrava stesse per affondare tanto erano basse le sponde. A un certo punto ci è stato detto che imbarcava acqua così, nonostante fossero già stati distribuiti i giubbotti salvagente, per precauzione, in attesa dei soccorsi, quelli tra noi più esperti hanno avvicinato loro un “centifloat”.

Si tratta di un gonfiabile di forma cilindrica della lunghezza di 4 metri che è stato subito appellato da una ragazza a bordo della barca in difficoltà come “banana”. Anche a me aveva ricordato quei giochi acquatici per cui oggetti simili, dopo essere stati legati a una barca, vengono caricati di persone che si divertono a farsi trascinare con l’obiettivo di reggere il più possibile la velocità rimanendo aggrappate ai maniglioni. Ecco, nonostante la forma sia simile, la funzione in questo caso è diversa. Serve infatti a limitare i danni in caso di naufragio facendo in modo che la persona in pericolo in acqua, a rischio annegamento, ci si possa aggrappare.

Lo abbiamo lanciato in mare anche sabato in un paio di occasioni. In una in particolare abbiamo temuto il peggio. Verso l’imbrunire sulla nostra rotta incontriamo un piccolo barchino su cui viaggiava un numero di persone del tutto sproporzionato alla capienza. Cercavano di raggiungere l’isola dove in questi giorni stanno arrivando in centinaia.

Non so se ce l’avrebbero fatta, probabilmente no, mi sono detta durante la notte trovando conferma, il giorno successivo, nelle valutazioni fatte dai colleghi soccorritori. Il motore aveva smesso di funzionare e l’acqua cominciava a bagnare i loro piedi entrando dalla parte posteriore del mezzo. Erano in 18 con un bambino di pochi mesi che veniva protetto dalle braccia dei genitori. La stessa scena si è ripetuta poi nel soccorso di martedì sera dove a bordo c’erano due neonati. E in entrambi i casi abbiamo atteso l’arrivo di un’imbarcazione delle autorità, distribuito salvagenti e acqua e lanciato il gonfiabile.

È difficile immaginare che attraversare il mare in quelle condizioni possa voler dire mettersi in salvo. Siamo abituati a sapere di madri e padri che ben altro sperano, desiderano e fanno per i loro figli. Ma le immagini della migrazione di tutto il mondo ci trasmettono un messaggio diverso: la non possibilità di potersi spostare liberamente quando si vive in contesti complessi fa sì che ogni occasione di salvezza venga colta, nonostante questa appaia agli occhi di molti la più pericolosa.    

Attraverso queste missioni cerchiamo di avvalorare il più possibile il significato del soccorso che non è solo un diritto ma è anche un dovere. Le più antiche leggi marinare, mi racconta il comandante a bordo, prevedono che chiunque si trovi in difficoltà in mare vada aiutato senza che ai naufraghi vengano poste domande sulla provenienza o la destinazione. Il contrario, ovvero il mancato intervento, si configura come un’omissione di soccorso in capo a chi quel gesto non lo ha compiuto. Su questo semplice assunto, ricco di una storia centenaria, si basa l’intera legislazione sul diritto del mare in cui il ruolo del comandante e quello degli stati sono centrali nel valutare la situazione di pericolo e prendere delle decisioni rispetto alla modalità di intervento.

Noi con Astral in questi giorni abbiamo navigato in un’area di competenza dell’Italia allertando le autorità di situazioni critiche e assistendo chi quelle situazioni le sta vivendo. E loro hanno sempre risposto facendo del loro meglio per arrivare sul posto in breve tempo. Mi domando se questo genere di collaborazione che porta al salvataggio di numerose vite umane la si potrà mai avere anche in altre aree del Mediterraneo centrale dove purtroppo si continua a morire con grande facilità. E mi domando quando, in quelle stesse aree, si smetterà di perdere la vita in questo modo.

Intanto Astral sta concludendo la missione 84 dopo essere intervenuta in undici eventi critici e aver tratto in salvo con il suo supporto 234 persone. Siamo felici di aver svolto al meglio il nostro lavoro.

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