Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia


Detto questo, non intende questa corte seguire il percorso del p.g. nel fare le bucce alla sentenza d’appello del processo stralcio a carico di Calogero Mannino, poiché non interessa stabilire se ed eventualmente in cosa quei giudici abbiano errato nel pervenire alla decisione di confermare l’assoluzione dell’imputato.

Ciò che qui interessa è, piuttosto, accertare se le ragioni che giustificano quell’assoluzione, poco importa se corrispondenti o meno a quelle poste dalla stessa corte d’Appello a fondamento della sua decisione, siano valide. Perché se Calogero Mannino è estraneo alla vicenda che qui ci occupa, o meglio se egli non ha avuto il ruolo propulsivo che la pubblica accusa, ma anche il giudice di prime cure di questo processo gli attribuiscono, allora cade il principale argomento che confuterebbe l’assunto secondo cui gli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, ed in particolare di Mori e De Donno, si mossero, nell’intraprendere i contatti con Vito Ciancimino, senza avere di mira altro risultato che quello di arginare l’escalation di violenza mafiosa e fermare le stragi: con implicazioni che a parere di questa corte sarebbero dirimenti per escludere il dolo di concorso nel reato loro ascritto, anche se dovesse pervenirsi alla conclusione che l’iniziativa dei carabinieri non fu, come le difese insistono a sostenere, una mera operazione di polizia giudiziaria sia pure con una marcata connotazione info-investigativa.

E per riportare la questione nei suoi giusti binari, che sono quelli di una doverosa aderenza all’oggetto specifico del presente giudizio d’appello e ai limiti del devolutum, è indispensabile partire dal modo in cui il giudice di prime cure ha accertato e valutato il ruolo ascrivibile al Mannino.

Sotto questo aspetto, va detto subito che il primo giudice si discosta sensibilmente dall’originaria prospettazione accusatoria, senza per questo rinunciare a riconoscere al Mannino un ruolo propulsivo, per avere comunque innescato l’iniziativa dei carabinieri del Ros, ma anche per averla in qualche modo “ispirata”.

Secondo la ricostruzione fattuale sposata dalla sentenza, infatti, il Mannino non si sarebbe limitato a investire i carabinieri, nella persona dell’allora comandante del Ros, della problematica relativa alla sua incolumità, essendo proprio lui, dopo l’omicidio Lima, in cima alla lista dei politici che Cosa nostra minacciava di uccidere.

Egli avrebbe fatto molto di più, indicando o anche solo lasciando intravedere che l’unico modo per venire a capo del problema era quello di sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare un dialogo propedeutico all’avvio di un negoziato che portasse l’organizzazione mafiosa a desistere dalla sua furia omicida, facendo così cessare la minaccia, una minaccia incombente anche nei suoi confronti.

E tuttavia tale condotta in sé non avrebbe alcuna rilevanza penale, poiché se già quella ascritta agli ufficiali del Ros come concorrenti nel reato è una condotta di istigazione e/o agevolazione della realizzazione del reato, nel caso del Mannino per la prima delle due condotte che gli venivano contestate si potrebbe parlare al più di una sorta di istigazione all’istigazione.

Ed anzi, neppure questa.

Cosa prevede la legge

La sollecitazione del Mannino sarebbe stata infatti solo quella di verificare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare il filo di un possibile dialogo: ma la trattativa in sé non è un reato.

Ed è soprattutto dirimente la considerazione che quella condotta si sarebbe dispiegata in un momento e in un contesto in cui non si profilava neppure l’inizio del complesso iter attuativo del reato per cui si procede, potendo quell’input iniziale condurre agli scenari e agli esiti più disparati.

La minaccia a corpo politico dello stato, infatti, comincerà a profilarsi e a prendere corpo solo nel momento in cui Riina, informato che rappresentanti delle istituzioni si erano fatti sotto per trattare, deciderà di accogliere quella sollecitazione e avanzerà specifiche richieste, con la minaccia implicita, che solo allora si sarebbe concretamente delineata in termini riconducibili al paradigma dell’artt. 338 c.p., che la violenza stragista sarebbe proseguita (o sarebbe ripresa) se le sue richieste non fossero state accolte.

In altri termini, agli intermediari istituzionali si contestava — e si contesta - di avere concorso alla realizzazione del reato mediante condotte a-tipiche, diverse da quelle costitutive del reato che avrebbero concorso a realizzare, ma suscettibili di agevolarne la compiuta realizzazione o di renderla possibile: ciò che sarebbe avvenuto attraverso plurimi apporti consistiti nel veicolare la minaccia in modo che giungesse al suo naturale destinatario — passaggio indefettibile per la consumazione del reato — o addirittura suscitando o rafforzando negli autori del reato il proposito di commetterlo.

Ora, l’eventuale instaurazione di una trattativa, argomenta il primo giudice, era aperta agli scenari e agli esiti più disparati, non potendosi escludere che i vertici mafiosi si accontentassero di quella sorta di legittimazione indiretta che veniva loro dal riconoscimento della loro veste di interlocutori (con il conseguente effetto di rafforzamento del loro prestigio e della leadership all’interno dell’organizzazione mafiosa); ma comunque l’apertura della trattativa non poteva segnare e non segnò il momento iniziale dell’iter attuativo del reato ex art. 338, che prenderà corpo solo nel momento in cui, rispondendo a quella sollecitazione, Riina farà conoscere le sue richieste, implicitamente ponendole come condizione per la cessazione delle stragi e quindi come condizioni di quel ricatto allo Stato in cui si sostanzierebbe, con tutte le peculiarità del caso di specie la condotta costitutiva del reato per cui si procede.

La prima delle due condotte specifiche contestate al Mannino, consistita nell’avere istigato gli istigatori, non integrerebbe quindi un apporto concorsuale alla realizzazione del reato, neppure sotto il profilo del concorso morale, a meno di non voler dare rilevanza penale ad una condotta di istigazione indiretta che solo eccezionalmente e in forza di una specifica previsione di legge può assurgere a fattispecie di reato autonoma (come nel caso dell’apologia di reato).

Pertanto, la condotta del Mannino di sollecitare i carabinieri ad intraprendere iniziative in proprio favore che non andassero tanto in direzione di un rafforzamento delle misure di protezione dalla minaccia mafiosa nei sui riguardi, ma in direzione semmai di un affievolimento di tale minaccia grazie all’instaurazione di un dialogo con chi aveva decretato la sua morte, nella ricostruzione operata dalla corte d’Assise di primo grado degrada a mero antecedente causale della condotta criminosa, per averne creato le premesse, innescando l’iniziativa dei carabinieri che avrebbe suscitato, prima, e rafforzato poi negli autori del reato il proposito di commetterlo.

E nell’economia della decisione che ha affermato la penale responsabilità degli ex ufficiali del Ros, il ruolo così attribuito al Mannino avrebbe comunque una portata ridona.

Il fine della “Trattativa”

Infatti, nella valutazione operata dal giudice di prime cure, non è decisivo stabilire se i carabinieri si fossero attivati per input di un politico influente, e al fine esclusivo o principale di salvargli la vita, per sviluppare un’iniziativa che abbandonasse la linea della fermezza nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.

Ciò che conta è che consapevolmente e deliberatamente essi abbiano concorso, con la loro improvvida iniziativa, e cioè sollecitando i vertici di Cosa nostra a far sapere cosa chiedessero per far cessare le stragi, a rafforzare, se non addirittura a suscitare negli autori del reato il proposito di realizzarlo (con l’ulteriore apporto di averne agevolato o reso possibile l’effettiva consumazione favorendo la veicolazione della minaccia fino al suo naturale destinatario, che era il governo della Repubblica). Poco importa allora che loro fine precipuo fosse proprio quello di prevenire l’ulteriore escalation della violenza mafiosa, nell’interesse generale della collettività, o il meno nobile fine di salvare la pelle a questo o quel politico influente.

Ad avviso di questa corte, invece, non è affatto ininfluente stabilire quali fossero le reali finalità perseguite dai carabinieri del Ros con la loro iniziativa.

Al contrario, ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine – o il fine precipuo – fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti, come in ipotesi Calogero Mannino, oppure ancora entrambe le finalità in quanto inscindibilmente connesse: far cessare le stragi come unico modo per salvare la vita a Mannino; ovvero, prefiggersi di arginare l’escalation mafiosa nella consapevolezza che ciò avrebbe giovato alla soluzione del problema — preservare l’incolumità di Mannino, minacciato di morte da Cosa nostra — di cui gli stessi carabinieri erano stati investiti.

Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Vito Ciancimino anche sul piano fattuale, avuto riguardo ai reali termini della proposta che fu rivolta allo stesso Ciancimino.

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