Larissa è arrivata in Italia dal Brasile 20 anni fa, lavorando a lungo come sex worker. Solo di recente è diventata beneficiaria del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) previsto dal ministero dell’Interno per tutelare richiedenti asilo, protezione internazionale e altri soggetti vulnerabili. La decisione di chiedere aiuto al Movimento identità trans (Mit) di Bologna e di entrare nel primo Sai italiano per persone trans è arrivata nel periodo della pandemia, quando ha dovuto lasciare la propria casa.

Nel capoluogo emiliano, nel 2018 è nata una delle prime strutture di accoglienza in Europa dedicata a persone migranti in fase di riassegnazione di genere. Dall’anno successivo la rete Sai di Bologna è diventata un punto di riferimento in Italia per l’accoglienza di migranti che si riconoscono nella comunità Lgbtqia+. Le strutture locali attualmente esistenti sono nove, mettono a loro disposizione 43 posti su un totale di 1.650 e sono coordinate dall’Azienda pubblica di servizi alla persona (Asp) della città di Bologna, in collaborazione con il Mit, il principale e più antico movimento trans a livello nazionale.

Le persone accolte provengono soprattutto da paesi dove il loro orientamento sessuale e la loro identità di genere sono discriminati e criminalizzati. Il Brasile ha adottato solo negli ultimi anni alcune leggi che riconoscono e tutelano le persone trans, ma quando Larissa si è trasferita l’omotransfobia lì era feroce. Anche oggi, le discriminazioni e le violenze restano una costante.

In Italia ha trovato la sicurezza che prima non aveva. Dopo aver intrapreso il percorso di accoglienza nella struttura gestita dalla cooperativa Cidas, ha iniziato a lavorare come commessa ed è diventata un’attivista per i diritti Lgbt+.

Stigma e discriminazione

«C’è ancora molto da fare per contrastare lo stigma che pesa sulle persone trans - dice Larissa -. Siamo viste per forza come prostitute, la nostra identità per tanti coincide con questo lavoro. Non è raro che la prima cosa che una persona mi chiede fermandomi per strada sia: “Dove abiti? Quanto vuoi?”».

Nella maggior parte dei casi, le persone migranti trans affrontano discriminazioni multiple, spiega Antonella Ciccarelli, referente della Cooperativa Cidas: «Oltre al razzismo, c’è la discriminazione legata all’orientamento sessuale o di genere. Questo può pesare anche sul loro inserimento lavorativo. Per questo chiediamo l’adozione di policy che tutelino la diversità di genere e sessuale sul posto di lavoro. In alcuni casi virtuosi, queste hanno permesso alle persone trans di essere riconosciute con il loro nome di elezione, anche quando non avevano ancora ottenuto la rettifica dei dati anagrafici».

Chi entra nel sistema di accoglienza ha a disposizione un periodo limitato per ottenere il riconoscimento dell’asilo o della protezione internazionale, trovare un lavoro e raggiungere un’autonomia economica e abitativa.

Per le persone trans, i tempi necessari per sostenere il percorso di transizione spesso sono molto più lunghi rispetto a quelli stabiliti per ricevere un titolo di soggiorno e portare a compimento il percorso previsto. Anche per questo motivo, sostiene Ciccarelli, è importante costruire una collaborazione con la cittadinanza e gli enti locali in grado di supportare le persone accolte al termine del periodo di integrazione stabilito dalle linee guida ministeriali.

Ascolto e formazione

La collaborazione dei centri Sai bolognesi con il Mit permette alle persone Lgbtqia+ un accesso facilitato ai consultori e a formazioni sulla salute sessuale. Tra i servizi forniti ci sono le visite specialistiche propedeutiche alla riassegnazione chirurgica del sesso, un supporto legale per i procedimenti di rettifica anagrafica e attività di confronto individuale in cui spesso persone queer che in passato hanno avuto accesso al Sai danno supporto ai nuovi beneficiari.

Secondo i dati ministeriali, le persone Lgbtqia+ nel Sai italiano alla fine del 2023 erano appena lo 0,4 per cento, poco più di 200 su 54.512 beneficiari, ma questa percentuale è una stima al ribasso: «Ci sono persone accolte che pur avendo esplicitato il loro orientamento chiedono di essere inserite nelle strutture Sai convenzionali - racconta Lucia Ferrari, assistente sociale di Asp - Molte altre hanno paura di fare coming-out perché temono ritorsioni o discriminazioni all’interno delle loro stessa comunità, dentro e fuori dal percorso di accoglienza».

Se poi si è allontanato da un paese d’origine in cui l’appartenenza alla comunità Lgbtqia+ non è accettata, spesso chi fugge ha perso i contatti con i propri familiari e questo può voler dire entrare nel circuito della tratta e dello sfruttamento, anche sessuale. «In questo modo i migranti Lgbtqia+ restano a lungo nel paese di arrivo in una condizione di invisibilità, senza poter per esempio accedere ai servizi sanitari. Ciò significa anche essere più esposti a malattie sessualmente trasmissibili e all’uso di sostanze», conclude Ferrari.

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