A Bruxelles è entrata in vigore la norma che garantisce ai sex worker di firmare contratti di lavoro formali. Nel nostro paese la discussione sulla legge Merlin si divide tra regolamentazione e approccio neo-proibizionista, mentre il fenomeno, che coinvolge più di 10mila persone resta legato a sfruttamento e stigma sociale
«Per me è una gran boiata», rispondeva un operaio alla richiesta di un commento sulla legge Merlin da parte di Pier Paolo Pasolini. Era il 1963 e Pasolini stava girando Comizi d’amore, una delle più grandi indagini sociali mai prodotte in Italia sui temi della sessualità e dell’affettività. Allora erano passati appena cinque anni dall’entrata in vigore della norma che aveva vietato in Italia le “case chiuse”, cioè spazi in cui la prostituzione era praticata legalmente.
Oggi dalla legge della senatrice socialista Lina Merlin oggi sono passati 66 anni e, mentre in Belgio una nuova norma garantisce ai sex worker diritti lavorativi pari a quelli delle altre professioni, nel nostro paese il dibattito sulla gestione di più di10mila lavoratori sessuali è ancora aperto.
Le novità del Belgio e le normative in Ue
Da domenica in Belgio i sex worker possono firmare contratti di lavoro formali. La normativa è il passaggio successivo alla depenalizzazione del lavoro sessuale volontario approvata in Belgio nel 2022 e che l’ha reso il primo paese europeo a eliminare le sanzioni penali in questo settore.
La nuova legge belga garantisce anche diritti fondamentali ai lavoratori sessuali, come il rifiuto di clienti, la scelta dei servizi da offrire, ma anche la possibilità di interromperli in qualsiasi momento. Tra i benefici introdotti c’è l’accesso ad assicurazioni sanitarie, congedi retribuiti, pensioni e tutele per la sicurezza sul lavoro. I datori di lavoro dovranno poi rispettare norme stringenti, come fornire biancheria pulita, preservativi e pulsanti antipanico negli spazi di lavoro.
Non sono mancati dubbi rispetto alla normativa. L’Utsopi, il sindacato dei lavoratori del sesso in Belgio e tra le organizzazioni più attive del paese sul tema, ha avvertito che la rigidità dei regolamenti potrebbe portare a un’implementazione restrittiva da parte dei comuni, spingendo così molti sex worker a operare clandestinamente. Altre critiche, invece, si sono concentrate sull’esclusione dei lavoratori privi di documenti regolari dai benefici previsti.
Ma oltre la richiesta di ulteriori interventi per contrastare la discriminazione sociale e un monitoraggio dell’applicazione della nuova normativa, la norma è stata accolta con favore dalle associazioni che si occupano dei diritti dei sex worker, sia localmente sia all’estero.
Lo stesso Utsopi ha definito la legge «una vittoria», l’ong Human Rights Watch una «legge storica contro lo sfruttramento sessuale». In Italia, il Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp), una delle più importanti associazioni impegnate nella promozione del riconoscimento legale del lavoro sessuale, si è complimentato con le associazioni di sex worker belghe, «che in questi ultimi anni hanno portato la lotta per i diritti a una trattativa con le rappresentanze politiche».
Se da anni organizzazioni umanitarie internazionali si espongono per l’urgenza di proteggere i diritti umani dei lavoratori sessuali e di combattere lo sfruttamento, ad oggi in Ue non esiste una legislazione unica sul sex work. Negli anni i paesi membri hanno approvato sistemi normativi diversi per regolare il lavoro sessuale sul proprio territorio.
Come il Belgio, anche altre nazioni hanno adottato un modello definito “regolamentarista”, che quindi prevede la legalizzazione del sex work. In Germania, Paesi Bassi e Austria le persone che operano nel settore sessuale, per cui sono previsti alcuni requisiti, dai controlli sanitari a una registrazione ufficiale e ambienti di lavoro regolamentati, pagano regolarmente le tasse e accedono a benefici sociali.
La Svezia, e poi l’Islanda e la Francia, hanno implementato un sistema indicato come “neo-proibizionista”, che prevede la criminalizzazione dell’acquisto, ma non dell’esercizio, dei servizi sessuali, penalizzando quindi i clienti e non i lavoratori.
In altri paesi il lavoro sessuale non è invece né regolamentato né vietato direttamente, bensì lo sono attività connesse, come il favoreggiamento o la gestione di luoghi dove si esercita la prostituzione. L’Italia è uno di questi.
La normativa “abolizionista” in Italia
Dopo l’entrata in vigore della legge Merlin nel 1958, la prostituzione si è spostata verso le strade o contesti clandestini. Il sistema abolizionista italiano poi, per quanto abbia consentito il lavoro sessuale autonomo, non ha previsto tutele lavorative per i sex worker, lasciandoli senza accesso a sicurezza sociale o protezioni legali.
Negli anni, le proposte di modifica alla legge Merlin hanno spaziato dalla riapertura delle case chiuse all’istituzione di un quadro legale per la prostituzione volontaria. Tuttavia, le iniziative per modificare o integrare la legge si sono arenate a causa di divergenze politiche e culturali.
«Dagli anni Sessanta, dal punto di vista di regolamentazione, non è cambiato quasi nulla», dice Pia Covre, attivista italiana, ex sex worker e cofondatrice nel 1982 del Cdcp. Secondo Covre, i provvedimenti legali in alcuni casi hanno addirittura penalizzato i lavoratori sessuali.
Il decreto Maroni, ad esempio, ha introdotto nel 2008 la possibilità per i sindaci di emettere ordinanze straordinarie per motivi di sicurezza e decoro urbano, tra cui il contrasto alla prostituzione su strada. Il decreto Minniti poi, nel 2017, ha implementato il Daspo urbano, spingendo molte lavoratrici in zone meno sicure. Durante la vicepresidenza al Consiglio dei ministri di Matteo Salvini, tra il 2018 e il 2019, sono state introdotte le “zone rosse”, cioè aree da cui escludere individui coinvolti in comportamenti considerati “antisociali”, che hanno ulteriormente esposto i sex worker a stigma e sfruttamento.
«Questo mondo, non esplicitamente illegale, ma criminalizzato in vari modi, è stigmatizzato socialmente. E l’isolamento crea vulnerabilità», dice Covre. «E se sei bianca, italiana, privilegiata, magari un modo per sopravvivere lo trovi. Ma se invece sei straniera, magari anche non bianca, non cisgender e così via, è uno slalom tra le fragilità e avere supporto è molto più complicato».
Il fenomeno in Italia
Nella discussione su come sostenere i sex worker, sono le stesse associazioni impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori sessuali ad essere divise sulla natura di tale intervento. Alcune, come il Cdcp, propongono una regolamentazione della professione sul modello del Belgio, altre invece sostengono la criminalizzazione dei clienti, promuovendo la reintegrazione sociale delle persone che operano nel settore sessuale, specie se vittime di traffico.
L’Italia è uno dei principali punti di transito e destinazione della tratta a scopo sessuale. Le persone straniere costituiscono infatti ben il 55 per cento di tutti i lavoratori sessuali in Italia, per un totale di circa 49mila e 500 operatori stabili e 11mila occasionali, tra cui molti minorenni (uno su dieci dei sex worker totali).
L’associazione Inoko, che considera l’industria del sesso lesiva della dignità umana, si occupa di contrastare la tratta fornendo supporto legale, psicologico e sociale alle donne sopravvissute, per poi inserirle in percorsi di reinserimento lavorativo. L’associazione promuove anche campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere le istituzioni a rafforzare le politiche anti-tratta.
«Oltre a una penalizzazione di chi compra, è necessario che l’Italia stanzi risorse adeguate per aiutare chi finisce in situazioni di sfruttamento ad uscirne in modo dignitoso», dice Esohe Aghatise, che è la presidente della Coalition against trafficking in women (Catw) e delIa onlus Iroko.
Secondo i dati e le testimonianze raccolte dalle associazioni del settore, i sex worker vittime di tratta arrivano spesso attraverso rotte pericolose e rimangono intrappolate in un sistema di sfruttamento basato su coercizione psicologica e debito. Si stima che del giro d’affari complessivo del settore del sex work italiano, che va intorno ai 4,7 miliardi di euro annuali, la stragrande maggioranza viene trattenuta da organizzazioni criminali, mentre i lavoratori vengono lasciati in situazioni di grave precarietà finanziaria.
All’instabilità economica si aggiunge lo stigma culturale e la scarsa accessibilità dei servizi, che aggravano la loro marginalizzazione, e con essa i rischi di violenza. E più si è soli e abusati, più aumenta l’incidenza di disagio fisico e psichico, secondo le associazioni. «Per questo bisogna fare un grande lavoro di educazione, collaborare con scuole e comuni, discuterne», dice Aghatise.
L’importanza del dibattito
Con la legge Merlin vennero chiuse 560 case di tolleranza, che ospitavano circa 2700 prostitute. Secondo stime recenti, oggi si contano fino a 120mila persone coinvolte nella prostituzione, senza considerare una grande cifra di sommerso a causa della natura clandestina del fenomeno.
«Io sono dell’idea che non si possa affrontare questo tema con estremismi. Ma mi pare evidente l’urgenza di gestire socialmente questo fenomeno, perché non è cancellabile con un colpo di spugna», dice Covre, secondo cui il sex working sta cambiando nel tempo, con un aumento dei servizi sessuali online, ma rimane un fenomeno esteso e ancora «underground» che necessita di un intervento statale.
«Bisogna parlarne e lavorare per far crescere la fascia di mezzo, quelli che sia da destra che da sinistra, dal femminismo, sono capaci di fare un ragionamento e almeno considerare di arrivare a delle condizioni di miglior tutela per le persone coinvolte», dice Covre.
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