C’è sempre un mostro in ogni fiaba nera. Quella di Bibbiano ha avuto per anni un nome: “il gender” che si alimentava di famiglie arcobaleno, assistenti “militanti” e un sistema che “strappava i figli” per darli in pasto ad “ambienti gay”. Ci sono voluti sei anni per demolire buona parte del castello accusatorio.

La sentenza del tribunale di Reggio Emilia nel processo “Angeli e Demoni”, nato dalle indagini sugli affidi nella Val d’Enza, a Bibbiano ha stabilito undici assoluzioni su quattordici imputati, molti con formula piena (“Il fatto non sussiste”).

Le tre condanne residue – tutte con pene sospese – riguardano l’ex responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi (due anni per falso in bilancio), il suo collaboratore Francesco Monopoli (un anno e otto mesi) e la neuropsichiatra Flaviana Murru (cinque mesi). Ma il “sistema Bibbiano”, costruito su oltre cento capi d’imputazione, è stato demolito: «Le relazioni erano corrette», «nessun abuso indotto». Restano nell’aria i veleni di una guerra culturale ancora in corso: contro le persone Lgbtq.

Propaganda politica

Nel 2019 mentre i magistrati indagavano silenziosamente, la propaganda politica scriveva una storia nera abitata da orchi arcobaleno e bambini vittime di torture, lobby Lgbtq e l’eterno ritorno dei comunisti mangiatori di bambini. «Il mostro arcobaleno vuole i vostri figli in pasto», scriveva Forza Nuova con un manifesto in cui una donna mangiava un neonato.

La fantasia morbosa si nutriva di un dettaglio dell’indagine: uno dei minori era stato affidato a una coppia di donne. Nei fatti la legge sull’affido non vieta che un minore venga affidato a una coppia dello stesso sesso. I magistrati, vincolati al riserbo, non potevano replicare alle dichiarazioni di padri e madri che parlavano pubblicamente di ingiustizie.

Così il vuoto informativo è stato riempito dalla propaganda. Il caso di Bibbiano ridotto a un’equazione feroce “gay = ladri di bambini”, chiunque poteva diventare un bersaglio. Giornalisti e politici di destra parlarono di «movente ideologico Lgbt dietro il sistema degli affidi». E mentre la giustizia procedeva nel silenzio dei codici, il dibattito pubblico marciva.

Fratelli d’Italia, con un’azione che non ha precedenti nella storia recente: propose la schedatura delle famiglie arcobaleno. A Ferrara, il capogruppo FdI Federico Soffritti, presentò un’interpellanza per sapere quanti fossero, tra i genitori affidatari, quelli omosessuali. L’orientamento sessuale come un marchio di sospetto.

La leader Giorgia Meloni, dal palco di Atreju, la kermesse del suo partito disse che non era «normale che una civiltà degna di questo nome tenti di fare in modo che non si parli di figlie rubate con l’inganno per farci i soldi che sennò bisogna parlare male della sinistra, delle cooperative e di certa parte dell’ambiente Lgbt».

Mentre in Senato il meloniano Alberto Balboni parlava di «movente ideologico Lgbt dietro gli scandali». A Pontida Salvini mostrò sul palco madre e figlia, spacciandole per “vittime di Bibbiano”. Non lo erano. Ma servivano corpi e simboli da opporre al “mostro gender”.

«I #Pdofili»

In quella torrida estate, mentre il governo Conte 1 vacillava, la Lega usava Bibbiano per colpire il Pd, in compagnia del Movimento 5 Stelle. In un video diventato celebre l’allora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio dichiarò di non voler mai sedersi a un tavolo con «il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderli». L’hashtag virale diffuso sui social era definitivo: #PDofili.

E in quell’immaginario che l’Italia si convinse che il nemico era la comunità Lgbtq e chi la rappresentava. Vincenzo Branà, ai tempi presidente del Cassero Lgbti Center di Bologna e consigliere nazionale d'Arcigay, ricevette una telefonata alle undici di sera.

La voce dall’altro capo urlava: «Dimmi dove sei, frocio bastardo, che ti taglio la gola. Portate via i figli per darli ai gay». Centoventi secondi di odio urlato. Branà lo registra, capisce dalla foto profilo su WhatsApp che questa persona era connotata ideologicamente: il profilo di Benito Mussolini. Prova che le campagne ideologiche creano effetti domino e chi non riesce a fare filtro viene travolto.

«Era la prima volta che ricevevo minacce al mio numero personale», racconta. «Questa persona sapeva tutto di me. E il punto non era minacciarmi ma creare il vuoto. Delegittimare le battaglie Lgbtq, isolare chi le porta avanti. Non siamo più alle lettere anonime nei circoli. Ora cercano il numero personale. Sanno chi sei».

Ancora in corso. Passata attraverso la bocciatura del ddl Zan contro l’omotransfobia ha trovato nuove vie nei provvedimenti recenti sul consenso informato scolastico, nell’attacco al famiglie omogenitoriali e persone trans. 

Dopo Bibbiano è cambiato il paradigma: «Non si tratta più di essere contrari al matrimonio, per esempio, ma è l’individuazione della persona come bersaglio: indebolire te per indebolire la causa. Noi attivisti siamo nel mirino». E l’attacco non è episodico, ma sistemico: «Fa parte di una strategia: quella di farci arretrare».

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