Il 26 giugno del 2015 la sentenza della Corte suprema statunitense riconobbe il diritto delle coppie formate da persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio. Il nodo cruciale era il complicato rapporto tra cambiamento sociale e democrazia. L’opinione della maggioranza mise nero su bianco la ragionevole conclusione secondo cui «gli individui danneggiati non possono attendere un intervento legislativo per far valere un diritto fondamentale». Dieci anni dopo, l’aria è assai meno respirabile
Sin da quando, ancor bambini, dovemmo mandare a mente La ginestra, abbiamo appreso che la storia non è quella linea d’inarrestabile progresso su cui s’intagliano «le magnifiche sorti e progressive» della nostra misera umanità. Non ci occorreva dunque una lezione di eclatante indecenza come quella che ci sta impartendo la seconda amministrazione Trump. E oggi, a dieci anni da Obergefell vs. Hodges, la sentenza della Corte suprema statunitense che il 26 giugno 2015 riconobbe il diritto delle coppie formate da persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio, possiamo adottare questo pezzo di stimabile progressismo come cartina al tornasole per leggere il processo degenerativo della più grande democrazia al mondo.
Il nodo cruciale della sentenza non era tanto il matrimonio tra persone del medesimo sesso, quanto il complicato rapporto tra cambiamento sociale e democrazia. L’opinione della maggioranza mise nero su bianco la ragionevole conclusione secondo cui, quantunque spetti alla politica governare le trasformazioni sociali, «gli individui danneggiati non possono attendere un intervento legislativo per far valere un diritto fondamentale».
Si concluse che sarebbe stato vano attendersi che il parlamento si facesse carico delle istanze dei cittadini, specie su quel particolare tema. La Corte decise pertanto che il matrimonio, quale «elemento cardine dell’ordine sociale e diritto fondamentale», era da estendersi all’intera cittadinanza.
Cinque a quattro
Fu una sentenza molto contrastata (cinque contro quattro), con giudici di primo piano che articolarono per iscritto la loro sprezzante riprovazione. I dissenzienti avanzarono tre ragioni di fondo: primo, il matrimonio ha un fine essenzialmente procreativo e dunque non può che esser contratto da persone di sesso opposto; secondo, non sussiste alcun presunto diritto di tutti a unirsi in matrimonio; terzo, la Corte suprema, con una decisione tanto dirompente, si era sostituita al legislatore, così da causare un’ulteriore smagliatura nella fragile trama della democrazia statunitense. Con tutta evidenza, in quella storica decisione della Corte risuonavano tutti i temi che ancor oggi dividono l’opinione pubblica di molte democrazie occidentali.
Obergefell vs. Hodges fu avversata persino da alcune frange più radicali del mondo gay e lesbico. Ad avviso di costoro, nascondeva un progetto “assimilazionista”, che imponeva il matrimonio come misura universale dell’intimità e così delegittimava tutte le altre forme di relazione e convivenza. Sarebbe stato più giusto abolirlo e introdurre uno spettro più ampio e plurale di modelli di riconoscimento giuridico delle molte e diverse configurazioni famigliari. Benché in chiave polemica, questa veemente reazione “da sinistra” mostrava come allora fosse in corso un utile confronto tra modi di ripensare la legge affinché potesse farsi più ospitale per il novero più vasto possibile di cittadini.
Prima dei Maga
Dieci anni dopo, l’aria è assai meno respirabile. Già prima della “seconda venuta” del MAGA, la controversa sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization, nel 2022, indicava la direzione di una retromarcia conservatrice. La Corte ha affermato l’inesistenza del diritto all’aborto e ribaltato alcune decisive sentenze, un tempo ritenute la punta di lancia del progressismo statunitense. Di nuovo con cinque giudici contro quattro, la decisione si faceva recepire come una ponderata strategia di restrizione del pluralismo in fatto di diritti sessuali e di genere.
Tutte le precedenti sentenze che avevano riconosciuto il diritto all’aborto venivano definite «prive di ancoraggio alla storia o ai precedenti rilevanti». Sicché, secondo la Corte, a dispetto di ogni metamorfosi sociale, il passato dei Padri fondatori deve e dovrà legare le mani a qualsiasi tentativo di ripensare il presente. Proprio nelle pieghe di quella sentenza ahimè epocale, il supremo giudice Clarence Thomas scriveva che la Corte avrebbe dovuto applicare la medesima logica per annullare Obergefell vs. Hodges. Sarebbe in effetti sufficiente sostenere, come fatto a riguardo dell’aborto, che il matrimonio non costituisce un diritto fondamentale.
Eppure, superando di molto l’ingegno più turpe e morboso, Trump è riuscito a peggiorare il quadro senza ricorrere alle finezze dell’ermeneutica giuridica. Al di là delle quotidiane dichiarazioni discriminatorie, ha dato concretezza alla sua brutale omofobia con la cancellazione di milioni di dollari in finanziamenti federali destinati a programmi inclusivi e la sospensione dell’Equal Access Rule, che garantiva l’accesso ai programmi abitativi statali indipendentemente dall’identità di genere. Ispirati dal suo alto magistero, i governatori repubblicani hanno dato il via all’orchestrata approvazione di misure utili a compromettere a livello dei singoli stati il matrimonio tra persone dello stesso sesso ed esercitare così una pressione psicologica sulla Corte suprema perché capovolga Obergefell vs. Hodges.
Nell’età del trumpismo
Ma non ci s’inganni: sarebbe colpevole più che ingenuo confinare tutto questo a un fatto di omofobia, non importa quanto furiosa e volgare. Un recente articolo del New York Times riportava i risultati di un sondaggio condotto su trentacinque giuristi cui è stato chiesto di indicare le azioni di più vistosa incostituzionalità compiute dalla seconda amministrazione Trump.
L’esito è disarmante: studiosi di assai diverso orientamento ideologico hanno fornito una messe di prove a sostegno di una tesi già di suo dotata della virtù dell’autoevidenza: il malcelato obiettivo di Trump è indebolire la Costituzione e minare tutti i cardini dello Stato di diritto.
Va da sé: tra questi studiosi ha fatto eccezione il “giurista della corona”, Adrian Vermeule, che all’opposto lamenta l’indebito attivismo delle Corti e asserisce che la Costituzione statunitense dà corpo a una democrazia esecutiva in cui il Presidente non ha da rispondere a nessun organo dello stato, ma sempre e solo al popolo.
Insomma, come fosse il pezzo di un frattale, nella pulsione a ribaltare le sentenze più aperturiste degli ultimi decenni si può leggere una più ampia transizione di sistema che tocca ogni ambito: dalla messa in mora della divisione dei poteri interna all’autoelezione di Trump a paciere del mondo a mezzo minacce e ricatti, senza compromessi né concertazioni – soprattutto, senza baluginio alcuno di legalità internazionale.
Nell’ottica del trumpismo (che dal putinismo si distingue solo per il nome dei rispettivi eponimi) l’obiettivo neppure troppo occulto è propiziare un regime il cui capo sia sommo giudice ed estremo decisore, cui spetta determinare se certi diritti siano davvero fondamentali – vale a dire, se rispondano o meno al suo imperscrutabile progetto di società. Non ci resta allora che confidare nella scarsa serietà del suo pubblico: se, come scriveva Flaiano, da sempre i fascisti sono una trascurabile maggioranza, teniamo duro fino al giorno della damnatio memoriae in cui, come in uno scarlatto rito orgiastico, cederanno le impunture “MAGA” dai milioni di cappellini rossi in bacchica circolazione.
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