Il Paese risulta al primo posto nella classifica dei più inclusivi. Ma l’esperienza nelle classi consente di avanzare qualche perplessità su ciò che misuriamo e su ciò che diciamo di fare
Alto livello di inclusione e forte dispersione (ancorché in diminuzione): è una delle contraddizioni che si osservano nella scuola italiana e che emergono, tra l’altro, dal Rapporto annuale Istat 2025.
In Italia quasi il 10% dei giovani fra i 18 e i 24 anni nel 2024 ha lasciato gli studi senza conseguire un diploma o una qualifica e la scuola non riesce a contrastare le disuguaglianze economiche e sociali (semmai, come si può evincere dal Rapporto, le conferma e le rafforza); eppure il sistema scolastico italiano risulta al primo posto nella classifica dei più inclusivi: aumentano gli studenti con disabilità, che trascorrono in classe la maggior parte del tempo, e aumentano i docenti di sostegno specializzati.
Insomma, pur con tutti i problemi che abbiamo (discontinuità didattica, inadeguato incremento delle risorse professionali, limitata accessibilità fisica e tecnologica, etc.) siamo davanti al Portogallo, alla Spagna, alla Grecia, addirittura alla Germania e alla Francia, con un sistema di istruzione che riteniamo fra i migliori e nel quale le scuole speciali e le classi differenziali sono state superate da tempo.
I fatti
Questo dicono i numeri; vediamo ora i fatti. In alcuni dei nostri istituti scolastici, per esempio, esistono stanze chiamate “dell’inclusione”, o “del sostegno”: possiamo partire da qui. Si tratta di ambienti appositamente pensati – o all’occasione adattati in modo più o meno ufficiale – perché i docenti di sostegno possano lavorarvi con studenti che hanno qualche genere di disabilità (nel gergo della burocrazia scolastica: certificati; oppure, per i nostalgici: ragazzi H) tale per cui la loro partecipazione alle attività della classe è complessa, difficile, talora molto difficile, e la loro presenza interferisce nello svolgimento delle attività stesse. In parole più ruvide: disturbano la lezione.
Non è mica colpa loro, si capisce, ma la disturbano. Allora può accadere, e accade, che l’insegnante di sostegno esca dall’aula con quello che viene considerato e spesso chiamato il “suo” studente, di propria iniziativa o dietro esplicito invito del docente curricolare (il quale ha da fare lezione agli altri, gli studenti normodotati – sic! – che hanno diritto all’apprendimento).
Esce dall’aula e cerca un angolo un po’ più tranquillo, separato: la stanza del sostegno, come ufficiosamente è conosciuta nell’istituto. Questa è spesso la realtà quotidiana in molte classi, in molte scuole, contro cui va a sbattere il naso la prospettiva della vera e piena inclusione che viene spiegata agli specializzandi nei corsi universitari per l’insegnamento di sostegno.
Nella vera e piena inclusione le cose andrebbero diversamente. Non è lo studente con disabilità a non essere in grado di partecipare, dal momento che quello studente, per esempio un ragazzo con sindrome dello spettro dell’autismo, è più precisamente neurodivergente, ossia presenta uno sviluppo neurologico atipico. D’altra parte nessun cervello è uguale ad altri, ci insegnano nei corsi di specializzazione grazie ai quali tanti di noi si sono assicurati un lavoro un po’ meno precario: siamo tutti neurodiversi, e questa dovrebbe essere ormai un’acquisizione consolidata (il termine è stato introdotto nel 1998).
Se l’insegnamento fosse davvero inclusivo, ci spiegano, chiunque dovrebbe riuscire a partecipare all’attività della classe nel modo in cui le sue caratteristiche glielo consentono attraverso la personalizzazione degli apprendimenti cui ha diritto.
La pratica
Questo impariamo nei corsi, questo dicono i documenti. Quindi dobbiamo, per fare un esempio, scomporre un argomento nei suoi nuclei fondanti, cioè individuarne i concetti fondamentali applicando tutte le strategie didattiche che abbiamo studiato e semplificare i concetti riducendo il carico cognitivo, perché lo studente arrivi a capire e possa poi svolgere la verifica di francese, poniamo, benché si esprima a monosillabi anche nella sua lingua madre, perché nel sistema scolastico più inclusivo d’Europa è previsto che anche lui sia valutato in ogni disciplina.
Così la verifica viene svolta – in qualche modo –, tu la consegni al collega e poi esci dall’aula con lo studente per tentare di lavorare su qualcosa che gli serva davvero. Allacciarsi le scarpe, trovare il bagno da solo o contare le monete per pagare un cornetto al bar… Questi sono i fatti, il resto è un misto di buona volontà e capacità di arrangiarsi con il puntello della normativa in cui incespichiamo e che a volte ci sovrasta ma ci ha permesso di diventare i primi in classifica.
Eppure l’inclusività era un’idea, prima di diventare un insieme di procedure, e la legge 104 del 1992 (tuttora in vigore) dice con chiarezza e semplicità che i docenti di sostegno condividono con i colleghi curricolari la titolarità del ruolo che svolgono in classe, cioè sono insegnanti di tutti gli studenti, non solo di quelli con disabilità.
E siccome del lavoro didattico fa parte la progettazione aggiungerei: devono essere coinvolti nella costruzione di percorsi di apprendimento effettivamente inclusivi. Che, come si legge nei documenti e si ripete nei corsi di formazione, tengano conto dell’eterogeneità delle classi, valorizzino le differenze, gli stili di apprendimento e i bisogni educativi, trasformando la pluralità in una risorsa educativa per tutti. Amen.
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