Un’analisi delle disparità sociali sulla base del luogo di nascita elaborata dal progetto Gesi (Geography and Social Inequality in Italy) che approfondisce le dinamiche dello spopolamento delle aree interne in Italia. Vivere qui influisce sulle opportunità educative, occupazionali e sulla mobilità sociale. Il tasso di istruzione più elevato finisce per accelerare lo spopolamento
Sono 13 milioni gli italiani (un quarto della popolazione nazionale) che vivono in una situazione di profonda disparità sociale. Questi cittadini delle cosiddette “aree interne”, abitano a oltre 20 minuti dai servizi essenziali come istruzione, salute e mobilità. Non si tratta necessariamente delle aree più povere, ma di quelle che presentano dinamiche di isolamento e di sempre maggiore depotenziamento socioeconomico. In questi 4mila comuni (circa la metà del totale) colpiscono in maniera più dura fattori quali invecchiamento, spopolamento e migrazioni. Per questi motivi ci sono meno possibilità educative e occupazionali, ma soprattutto la mobilità sociale è ridotta al minimo.
L’effetto è che sempre più persone cercano di allontanarsi dai luoghi di origine, accentuando le disparità già esistenti. «I recenti cambiamenti tecnologici ed economici hanno aperto nuove fratture geografiche, visibili ovunque ma particolarmente rilevanti in Italia, un Paese già segnato da forti divari interni», spiega Nazareno Panichella, professore ordinario di Sociologia Economica all’Università di Milano e coordinatore di Gesi. Il progetto studia proprio queste dinamiche tramite un consorzio di ricerca, coordinato dall’Università Statale di Milano e sviluppato in cinque atenei italiani: Milano Statale, Trento, Catania, Bologna e Roma (Luiss).
IL DIVARIO TRA NORD E SUD
Il problema delle aree interne non è uguale in tutta Italia, soprattutto se si considera la loro distribuzione: nel Mezzogiorno sono molto più presenti rispetto al resto del Paese. Nel Sud due comuni su tre sono classificati come interni e in questi vive un terzo della popolazione totale. Al Nord-Est invece un terzo dei comuni rientra in questa categoria e ci vive solo un decimo dei cittadini. Secondo gli ultimi dati Istat 2024 sullo spopolamento di questi territori, si registra un calo continuo di popolazione (tra 2014 e 2024 c’è stata una diminuzione del 5 per cento tra i residenti). Si prevede che entro il 2043 ci sarà un ulteriore diminuzione per oltre l’82 per cento dei comuni, specialmente nel Mezzogiorno dove ci si aspettano picchi del 93 per cento. Non è però solo una questione di quantità di aree interne, ma si tratta anche di una penalizzazione “infrastrutturale”. Vivere al Nord in una zona interna prevede comunque la possibilità di spostarsi. Nel Sud Italia invece la carenza di trasporti e infrastrutture rende necessario il trasferimento stabile in un altro territorio.
Il governo ha abbandonato le aree interne
I dati di Gesi fanno eco alle polemiche sorte alcuni mesi fa, quando il governo a luglio 2025 ha approvato il nuovo Piano strategico nazionale per le aree interne (Psnai). Il testo parla di un progetto per assistere queste zone «in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita». Il documento propone una differenziazione su base demografica delle diverse aree interne. Questi territori vengono divisi tra quelli «rilanciabili» e quelli «senza prospettive». In questo modo centinaia di comuni vengono abbandonati dallo stato che non provvederà più a contrastarne lo spopolamento ma, al contrario, proporrà un «accompagnamento verso un declino irreversibile».
Una scelta che finirebbe per penalizzare ulteriormente il Sud e le sue zone più fragili. L’abbandono di queste aree viene legittimato e si delinea una disuguaglianza istituzionalizzata con comuni di serie A e comuni di serie B, la cui unica possibilità rimasta è quella di scomparire lentamente.
TROPPO QUALIFICATI
Tra il 1951 e il 2019, il Sud Italia ha perso circa 1,2 milioni di residenti provocando un invecchiamento della popolazione e la perdita di giovani laureati. «Quando i più qualificati emigrano dalle aree svantaggiate, lasciano dietro di sé territori sempre più deboli», sottolinea il professor Panichella. Contrariamente allo stereotipo del migrante povero e poco istruito, sono proprio le persone che avrebbero la forza e gli strumenti di risollevare il territorio le prime costrette ad abbandonarlo.
Titoli di studio elevati e specializzazione sono qualità che i territori di origine non riescono a soddisfare. «Chi ha competenze specialistiche – dice Panichella – trova spesso impossibile valorizzarle nelle aree interne, dove il mercato del lavoro offre poche occasioni in settori avanzati. Così l’unica possibilità è spostarsi verso le grandi città o le aree economicamente più dinamiche».
IL PARADOSSO DELL’ISTRUZIONE
Sempre nelle aree interne del Sud, la frequenza dei licei è molto alta con tassi di abbandono bassi. Questo porta a un buon livello di istruzione generale che ha aiutato ad appiattire le differenze sociali. Allo stesso tempo però queste si acuiscono subito dopo. Una buona formazione spinge i giovani a scegliere di proseguire gli studi in università e di conseguenza migrare.
L’educazione liceale così non è un trampolino di lancio per la mobilità sociale nel territorio di origine ma favorisce al contrario un’uscita da esso. Questo tipo di migrazioni non sono però temporanee per un periodo di studio limitato ma si esplicano in progetti di vita a lungo termine. La creazione di nuovi poli universitari al Sud, anche se importante, non basta se non è accompagnata da reali prospettive di lavoro e stabilità.
GERARCHIE INVISIBILI
Questo fenomeno analizzato dal progetto Gesi mostra come la migrazione accentui le disuguaglianze preesistenti. Una società può includere diverse scale sociali ma gli individui non devono essere intrappolati all’interno di un ordinamento gerarchico. La possibilità di muoversi per migliorare le proprie opportunità di vita deve essere garantita a tutti, eppure così non accade. Sono gli uomini a beneficiarne maggiormente, soprattutto quelli provenienti da una classe sociale più elevata. Gli uomini già benestanti migrano di più, perché ne hanno la possibilità, e hanno in percentuale più successo.
A rimanere indietro sono le classi meno abbienti e soprattutto le donne, per le quali la mobilità geografica non si traduce in ascensore sociale. In questo caso si crea spesso la dinamica della “migrazione al seguito”: molte si spostano solo per seguire un partner o la famiglia. È un vincolo che influisce sulla qualità dell’inserimento lavorativo e sulla scelta di opportunità adeguate al proprio livello di istruzione. La migrazione femminile è quindi più dipendente, più fragile e meno premiante rispetto a quella maschile.
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