Trentasette anni fa, il 19 luglio del 1985, la cittadina di Stava, in provincia di Trento, venne completamente distrutta da un’alluvione di acqua e fango causata dal crollo di un bacino di decantazione di una miniera. In tutto, 268 persone rimasero uccise e altre venti ferite, in quello che ancora oggi viene ricordato come uno dei più gravi disastri avvenuti in epoca recente nella provincia di Trento. Un disastro che, come quello del vicino Vajont, fu causato da errori umani, mancanza di controlli e, come hanno scritto i giudici che si sono occupati delle indagini dopo il disastro, dall’anteporre gli interessi economici alla sicurezza della comunità. 

La miniera

Sopra l’abitato di Stava, una frazione di circa 300 abitanti del comune di Tesero, c’era una miniera di fluorite, un importante minerale molto utilizzato nell’industria chimica. L’estrazione della fluorite produce molti materiali di scarto: soprattutto acque e fanghi.

Per contenerli, sopra l’abitato di Stava vennero costruite negli anni due bacini di decantazione: enormi vasche con argini di terra destinati a conservare l’acqua fangosa. Il primo bacino aveva un argine di appena nove metri, ma con il passare degli anni venne ingrandito fino ad arrivare a 25 metri.

Ad un certo punto venne costruito un secondo bacino, immediatamente sopra il primo. Alla fine, l’apparenza era quella di due enormi piscine sovrapposte lungo un terreno molto pendente. Sommati, gli argini dei due bacini arrivavano a un’altezza di 50 metri e contenevano 180mila metri cubi d’acqua.

I problemi

Diverse società contribuirono alla costruzione e poi alla gestione di questa struttura, ma in sostanza facevano tutte capo ai grandi giganti della chimica del Dopoguerra, che al momento del disastro erano confluiti nella potente società Montedison.

Il progetto dei due bacini non sarebbe stato ideale nemmeno se fosse stato eseguito e controllato a regola d’arte. La costruzione era troppo alta, il terreno non era adatto e la pendenza del rilievo, che puntava dritto sull’abitato di Stava, era un evidente pericolo.

Come se non bastasse, gli enti della provincia di Trento incaricati di verificare la sicurezza dell’intero impianto non fecero granché per assicurarne la tenuta. Quando nel 1975 il comune di Tesero chiese una verifica sulla sicurezza dei bacini, il distretto minerario della provincia affidò il compito alla stessa società che li gestiva. Il tecnico riferì che l’impianto era «al limite», ma la società comunicò che la verifica era stata «positiva» e un nuovo innalzamento dell’argine venne autorizzato.

Il disastro

Alle ore 12.22 del 19 luglio del 1985, il bacino superiore, quello più alto e costruito con più incuria, cedette. Acqua e fanghi si riversarono con la forza di un maglio sul bacino inferiore, rompendone l’argine. In pochi secondi, l’intero contenuto accumulato in anni di scavi si riversò a valle ad una velocità di circa 90 chilometri all’ora. Prima di arrestarsi in fondo alla valle, l’alluvione sradicò altri 50mila metri cubi di alberi, detriti e macerie che andarono ad aggiungersi ai 180mila metri cubi d’acqua.

Per le persone che si trovavano sulla strada della colata non c’era nulla da fare, come testimonia il bassissimo numero di feriti rispetto a quello dei morti. Soltanto una donna venne estratta dalle macerie di un albergo distrutto e morì pochi giorni dopo essere stata soccorsa.

Ci volle un anno per stabilire esattamente il numero dei morti, mentre 71 corpi erano in tali condizioni che non furono mai identificati e oggi sono sepolti nel cimitero monumentale di Stava.

Le conseguenze

Il processo penale per il disastro si è concluso nel 1992 con la condanna di dieci imputati per i reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo, tra loro i dirigenti delle società che costruirono il bacino, i gestori della miniera e i responsabili dei controlli della provincia di Trento. La provincia, la società Montedison e gli altri concessionari furono condannati al risarcimento delle vittime anche in sede civile.

Anche se il processo non è stato tra i più rapidi, i responsabili sono stati individuati e puniti. Come hanno scritto i periti del tribunale, la cui tesi è stata poi accolta dai giudici, «tutto l’impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane».

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