Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, l’occupazione in Italia nel 2024 è cresciuta dell’1,5 per cento, mentre quattro volte di più è aumentata la percentuale degli occupati tra i cittadini stranieri. Oggi i lavoratori non italiani sono 2 milioni e mezzo, il 10 per cento sul totale della popolazione occupata, e sono aumentati nell’ultimo anno di 140mila unità.

Ma se le cifre dell’istituto di ricerca riflettono un andamento positivo, i dati contenuti nel Dossier Statistico Immigrazione redatto ogni anno dal Centro Studi Idos in collaborazione con la rivista Confronti e l’Università Pio V, raccontano un’altra storia.

Separazione

L’inserimento lavorativo dei migranti si mantiene, come decenni fa, subalterno e separato. Il tasso di incidenza media, infatti, crolla nei settori della pubblica amministrazione, dell’istruzione, e in quelli di alta specializzazione, aumentando di molto, invece, nella logistica, nelle costruzioni, nell’agricoltura, e nei servizi di cura alle famiglie; in quest’ultimo settore quasi due terzi degli occupati sul totale hanno una cittadinanza straniera.

Più in generale, soltanto un cittadino straniero ogni cinque svolge una professione qualificata, agli uomini sono riservati 15 settori lavorativi su 48 disponibili; alle donne, di contro, soltanto cinque: badanti, collaboratrici domestiche, addette alla pulizia di uffici ed esercizi commerciali, cameriere, operatrici socio-sanitarie, sono gli unici impieghi che le vengono riservati.

Con i numeri, dunque, cresce la loro insoddisfazione, ma anche l’incidenza sugli infortuni. Basti pensare che gli incidenti sul lavoro – secondo i dati ufficiali Inail comunque sottostimati – sono stati l’anno scorso oltre mezzo milione, e più di 100mila hanno riguardato persone nate all’estero.

Il “lavoro grigio”, poi, cioè le finte partite iva, il part-time volontario, e le altre qualificazioni che mascherano lo sfruttamento della manodopera, riguarda un lavoratore migrante ogni tre, la cui retribuzione media annue, infine, risulta essere del 30,4 per cento più bassa rispetto a quella degli italiani: 17mila euro contro 24.400.

Vulnerabilità

In questa sorta di mercato del lavoro separato, una componente a parte riveste l’agricoltura, settore per eccellenza di sfruttamento della manodopera migrante. Qui, più in generale il 90 per cento delle persone addette ha un contratto a tempo determinato, e oltre un quarto delle persone sono impiegate soltanto 50 giornate all’anno.

Il lavoro povero nel settore agricolo, nello specifico, tra gli stranieri, alimenta una sorta di pendolarismo stagionale verso altri settori ancor più svantaggiati dell’industria e dei servizi, creando quella che il sociologo Antonio Ciniero ha definito una vera e propria «filiera della vulnerabilità».

In tutti i casi, per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, gli interventi istituzionali non sono mancati. Il Piano triennale di contrasto al caporalato 2020-2022 ha investito oltre 700 milioni di euro e nel 2022 ne sono stati stanziati altri 200 per il superamento dei ghetti agricoli, «eppure lo sfruttamento e la ghettizzazione abitativa dei lavoratori agricoli stranieri persistono», fa notare Ciniero: «Il superamento dei ghetti agricoli è un processo che si sarebbe dovuto concludere entro marzo 2025, ma che ad oggi è ancora lontano dal realizzarsi».

Continua: «I ghetti continuano ad essere ancora in piedi e la quasi totalità delle progettualità non sono state nemmeno avviate, un fallimento dovuto a una serie di criticità, a iniziare dalle modalità con cui sono state individuate le aree in cui intervenire, passando per il mancato coinvolgimento dei destinatari finali nella definizione e programmazione degli interventi», conclude il sociologo.

Flussi

A complicare il quadro circa le ragioni dello sfruttamento del lavoro dei migranti è il sistema di ingressi per lavoro previsto dal governo, il così detto Decreto Flussi di cui questo giornale si è occupato più volte, dimostrando come il meccanismo stesso, per come è concepito, alimenta il lavoro irregolare.

In un’analisi della Uil pubblicata all’interno del Dossier Statistico Immigrazione, Beppe Casucci e Francesca Cantini ribadiscono che «il sistema dei Decreti flussi si è rivelato incapace di rispondere in modo flessibile, tempestivo ed equo alla domanda di lavoro regolare dall’estero». E ancora, dal sindacato riferiscono che «i numeri analizzati confermano che solo una minima parte delle domande presentate si conclude con un contratto di lavoro effettivo, le quote sono sottodimensionate rispetto ai fabbisogni e le procedure di ingresso sono talmente complesse da scoraggiare spesso i datori di lavoro onesti».

Sono ancora le cifre a confermare il fatto che il Decreto Flussi alimenta sia l’immigrazione che il lavoro non regolare. Nel 2024, infatti, meno dell’1 per cento delle domande presentate si è trasformato in un’assunzione reale, cioè sono stati firmati 5.161 contratti a fronte di 717mila domande presentate.

Ed è proprio sul nesso tra il permesso di soggiorno a breve scadenza e l’aumento dello sfruttamento lavorativo che insiste il presidente di Idos, Luca Di Sciullo, affermando che «proprio in quanto periodicamente esposti a un simile rischio di irregolarità, i soggiornanti a termine rappresentano la categoria di non comunitari più vulnerabile, alla mercè di organizzazioni criminali o di datori di lavoro senza scrupoli, che, approfittando della loro invisibilità, spesso li reclutano come manovalanza a basso costo per attività illegali e lavori in condizioni di schiavitù». 

© Riproduzione riservata