Dopo quattro anni di presidio permanente, il tribunale di Firenze ha ordinato di liberare il sito industriale di Campi Bisenzio anche con l’uso della forza pubblica, se necessario, e a sostituire le serrature. Solo un intervento repentino da parte del presidente Giani potrebbe salvare un’area dalla deindustrializzazione e dalla speculazione
È arrivata mercoledì mattina e i diretti interessati l’hanno scoperto leggendo il giornale: il tribunale di Firenze ha ordinato lo sgombero del sito industriale dell’ex Gkn di Campi Bisenzio. Il collettivo di fabbrica compirebbe quattro anni il 9 luglio: quattro anni di presidio permanente, da quella mattina in cui il fondo finanziario Melrose, che aveva precedentemente acquisito la multinazionale comunicò con una pec a tutti i lavoratori che il giorno dopo non sarebbero dovuti tornare in fabbrica: sarebbero cominciate le ferie preventive, si sarebbe aperto un processo di licenziamento.
Quel giorno, invece di uscire dai cancelli, gli operai ci si sono chiusi dentro e lì sono rimasti per tutto questo tempo, costruendosi attorno un mondo enorme di alleanze, sostegno, solidarietà, dando vita a un movimento profondamente intersezionale. Per il presidio di Campi Bisenzio in questi anni sono passati, e anzi si sono fermati, sono cresciuti i giovani dei movimenti ecologisti, da Fridays For Future a Ultima Generazione, ma anche le università e la ricerca hanno trovato un terreno di studio e di scambio importantissimo. E mentre il mondo veniva a Gkn, Gkn usciva nel mondo, portava in piazza a Firenze migliaia di persone.
Fra una vertenza e l’altra, fra stipendi sospesi e casse integrazione, gli operai aspettavano invano una reindustrializzazione dall’alto, hanno messo a frutto le loro competenze e quelle dei ricercatori che avevano attorno e hanno elaborato un grande piano di reindustrializzazione dal basso. La cooperativa di lavoratori si occuperebbe di costruzione di cargo-bike, di cui esistono già i primi prototipi, e di riciclo e produzione di pannelli solari: «I pannelli sono studiati perché si adattino alle materie prime e alle esigenze del territorio, e non importati su caratteristiche standard. L’idea è che la produzione possa indirizzarsi alle comunità energetiche del territorio. Ma serve una politica di indirizzo pubblico sullo spazio in cui inserire questo progetto», spiegava Salvetti.
Una soluzione sembrava a portata di mano: si tratterebbe di un consorzio regionale pubblico, che recupererebbe la proprietà dello stabilimento e dentro cui si potrebbe inserire la cooperativa di fabbrica con il sostegno di un azionariato popolare partito quasi due anni fa e che ha quasi raggiunto i due milioni di euro.
Uno scontro tra visioni del mondo
Proprio ora la regione Toscana, a pochissimi mesi dalle elezioni previste per settembre, avrebbe (o avrebbe avuto?) l’occasione di intestarsi la lotta operaia che ha saputo unire operai, sindacati, movimenti ambientalisti, ricercatori. Sarebbe una scelta coraggiosa che mostrerebbe la capacità della regione di guardare al concretamente al futuro.
Il consorzio pubblico servirebbe principalmente a bloccare interventi volti alla speculazione immobiliare, affinché l’area rimanga a vocazione industriale. Le società proprietarie mirano infatti ad abbattere lo stabilimento per costruirci altro, probabilmente un polo per la logistica.
A guardarlo bene, è uno scontro fra visioni del mondo. Da una parte c’è un piano economico, dall’altra una minaccia di sgombero. Da un lato, le conoscenze e competenze operaie e territoriali di chi lavora e vive in quell’area, e ha idee precise e concrete su come riconvertire lo spazio per produrre valore utile per la collettività. Dall’altro, la fretta di distruggere e ricostruire.
«In quello stabilimento ci sono macchinari nuovi fiammanti, quando la fabbrica ha chiuso quattro anni fa alcuni non avevano prodotto nemmeno cento pezzi. Sono macchinari acquistati con fondi pubblici destinati alla transizione ecologica, pagati con le nostre tasse. Ora quelle macchine vogliono buttarle via e sarebbe assurdo. Il piano proposto dal collettivo di fabbrica è volto proprio a riutilizzare, rifunzionalizzare. Demolire, al contrario, avrebbe un impatto ambientale enorme oltre a essere uno spreco inaccettabile», racconta la sindacalista Eliana Como di Fiom e Cgil.
Il provvedimento è stato richiesto dai commissari giudiziali nominati nell’ambito della procedura di concordato preventivo, aperta su istanza del liquidatore Gianluca Franchi. Durante un sopralluogo del 4 giugno, i commissari avrebbero preso atto dell’occupazione da parte del collettivo di fabbrica di alcune aree, in particolare la reception, il bar, il parcheggio, la palazzina nord e una tensostruttura.
Il decreto del tribunale autorizzerebbe i carabinieri a liberare l’area anche con l’uso della forza pubblica, se necessario, e a sostituire le serrature. I carabinieri di Campi sono stati già allertati e potranno assistere nelle operazioni. Lo sgombero non è ancora avvenuto e solo un intervento repentino da parte del presidente della regione Giani potrebbe salvare un’area dalla deindustrializzazione e dalla speculazione. Per dare la possibilità a questi quattro anni di presidio, di progetti, di lavoro, di fabbricazione di idee, alleanze e piani, di diventare il più importante esempio di transizione ecologica e giusta d’Italia.
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