Anoressia nervosa, ortoressia, bulimia nervosa, vigoressia, Binge Eating Disorder, ARFID, diabulimia: i disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono malattie che faticano a essere riconosciute e legittimate; patologie che hanno a che fare con la psiche e in molti casi manifestano risvolti a livello fisico.

Riguardano fasce di popolazione sempre più vaste e coinvolgono anche persone che si identificano nel genere maschile, al contrario di quanto emerge dalle solite narrazioni. «Soffrire di disturbi alimentari mi è sempre sembrata una cosa lontana da me, distante anni luce: eppure eccomi qui. Ho un disturbo alimentare, che so non essere una malattia terminale, ma a volte, a causa dei pensieri che mi fa avere, sembra altrettanto grave», racconta Filippo sul blog dell’associazione no-profit Animenta. «Ho pensato per tanto tempo che la gabbia fosse il mio corpo, e invece è la mia mente. Ma so che c’è una luce, in fondo a questo tunnel di pensieri negativi e isolamento, che mi fa andare avanti nella consapevolezza che da disturbi alimentari si può guarire».

I DCA sono patologie di lunga durata, possono avere esiti diversi, molti pazienti guariscono grazie ai trattamenti disponibili, nel 20% dei casi c’è una tendenza alla persistenza del disturbo.

Disinformazione, stigma e pregiudizi

Le informazioni scorrette o carenti sui DCA innescano ragionamenti che contribuiscono al radicamento dei pregiudizi. Si oscilla fra l’opinione che siano “situazioni” molto gravi e infrequenti oppure frequenti e banali. Non vengono considerati né malattie né patologie psichiatriche, ma capricci che hanno a che fare con il cibo e l’aspetto fisico. In realtà sono modalità di esternalizzazione di un dolore più profondo che deriva da fragilità, insicurezze e sofferenze della persona. «I disturbi alimentari vengono ancora percepiti come uno stigma e c’è una profonda vergogna in chi li vive perché sono associati a una moda, al fatto che le ragazze se ne ammalino per fare le modelle», spiega Aurora Caporossi, fondatrice di Animenta.

La maggior parte dei casi presenta una combinazione di vulnerabilità. Come dice Caporossi: «I DCA hanno un’eziopatogenesi multifattoriale, ossia ci sono una serie di cause che possono portare alla loro insorgenza e i fattori che sono stati individuati clinicamente sono psicologici, biologici e socio-culturali. Se da una parte si può avere una predisposizione personale a questo tipo di malattie, dall'altra il fattore precipitante è la società nella quale viviamo. Infatti i DCA sono definiti delle patologie culture-bound, correlate all’ambiente culturale e sociale».

Pornografia del dolore

Per scardinare i pregiudizi e creare consapevolezza bisogna partire dal modo con cui si parla dei DCA. Caporossi sottolinea che come associazione stanno lavorando sulla decostruzione delle immagini e delle parole stigmatizzanti. «Molti giornali raccontano storie solamente al femminile, si parla sempre e solo di anoressia nervosa, a un articolo corrispondono foto molto stereotipate di corpi emaciati, frigoriferi aperti nel cuore della notte e persone con grandissime quantità di cibo intorno». Con questo tipo di narrazione si tende a «estetizzare la malattia, diventa alla moda soffrire di un disturbo alimentare e si finisce per romanticizzarlo».

Ad aggiungere un tassello è Francesca Inglese, fondatrice di Animenta Bologna che spiega come quando si parla di DCA spesso si dica «persona anoressica», invece di «persona malata di anoressia». La differenza è fondamentale perché una persona non è la sua malattia, ma soffre di un disturbo alimentare, «la scelta delle parole è fondamentale per la tutela di chi è malato». Secondo Inglese si deve rifiutare la pornografia del dolore che «fornisce solo una visione parziale e non aiuta neanche in termini di prevenzione». Le storie e i vissuti personali costituiscono un valore aggiunto, non ci si può limitare a un «racconto sterile del dolore personale, deve essere fatto in maniera politica, nell'ottica di sensibilizzazione, per mostrare agli altri che cosa possono fare», afferma Inglese.

L’ossessione per il cibo e l'alimentazione, la promozione di stili di vita sani che tengano sotto controllo il peso sono tutti meccanismi che fanno parte della cosiddetta “diet culture” e portano all’idealizzazione di corpi perfetti e canoni di bellezza trasmessi e amplificati anche grazie ai social media.

«La comunicazione sui disturbi del comportamento alimentare parte sui social con i “profili recovery”, cioè singole persone che condividevano la loro esperienza di quello che mangiavano tutti i giorni per guarire dalla loro malattia», spiega Inglese. Poi precisa che questi profili hanno una doppia valenza: «Da un lato ti fanno sentire accompagnato nel tuo percorso, dall’altro però possono innescare meccanismi negativi».

Famiglia, territorio e fondi

I disturbi del comportamento alimentare si definiscono ego-sintonici, la persona che ne soffre li considera una parte di sé. Considera la sua malattia come un aspetto dell’identità. Per questo motivo spesso sono le persone che stanno accanto a chi è affetto da DCA a mobilitarsi e prendere contatto con gli specialisti per una cura. Animenta ha avviato a Bologna uno sportello di ascolto all’interno del laboratorio di salute popolare. Sarà un presidio di attivazione civica per accogliere le persone bisognose di sostegno o informazioni. Il percorso prevede tre incontri per capire le esigenze della persona e indirizzarla ai servizi più adatti.

Iniziative dal basso come questa cercano di sopperire alla mancanza di fondi strutturali. Qualcosa sembra muoversi: mentre le associazioni sono pronte a protestare perché il governo Meloni non ha rifinanziato il fondo per il contrasto ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, il ministro della Salute Orazio Schillaci ha annunciato di aver deciso di «con un emendamento che sarà proposto in conversione al cosiddetto decreto Milleproroghe, di mettere a disposizione del fondo straordinario, pur in assenza della completa rendicontazione da parte delle Regioni, un fondo pari a 10 milioni di euro per il 2024».

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