Una madre e sua figlia di sei anni morte abbracciate di stenti lungo il confine con la Libia; altri cinque cadaveri trovati in quella zona militarizzata e inaccessibile; donne incinte e neonati abbandonati nel deserto per giorni senza acqua e cibo e centinaia di persone che sono state tratte in salvo dalle cosiddette autorità libiche, famose per essere accusate di ogni tipo di violazione dei diritti umani. Ci sono delle immagini destinate ad andare oltre ogni tipo di analisi e commento. Quelle arrivate in queste settimane dalla Tunisia parlano chiaro.

Il senso di quelle istantanee è semplice. Dal 2 luglio scorso le forze di sicurezza tunisine si sono rese protagoniste di vere e proprie deportazioni di massa ai danni della comunità subsahariana presente nel paese. Deportazioni che sono state compiute nella città di Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali di partenza della rotta centrale del Mediterraneo.

Sotto gli occhi dell’Europa

Da un mese nel paese si respira un’aria pesante. In quei luoghi dove la convivenza tra popolazione locale e cittadini originari dell’Africa subsahariana e del Sudan si è fatta più difficile anche a causa delle precarie condizioni economiche del paese, la bomba sociale è definitivamente esplosa un mese fa. Da una parte a Sfax una fetta di tunisini, dopo mesi di tensioni e l’omicidio di un connazionale da parte di tre cittadini originari del Camerun, si è riversata contro migranti, richiedenti asilo, donne incinte e lavoratori solo per il colore della pelle. Abitazioni incendiate, caccia all’uomo con pietre, bastoni, machete e accoltellamenti sono gli episodi più crudi di una violenza senza confini.

Dall’altro le autorità tunisine sono all’origine dell’istituzionalizzazione di queste violenze. Almeno dal 21 febbraio scorso quando il presidente della Repubblica Kais Saied ha affermato: «Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico».

Da allora le violenze non si sono mai fermate e sono diventate di Stato quando sono cominciate le deportazioni. Dal 2 luglio scorso si stima che siano state più di 1200 persone abbandonate lungo il confine con la Libia e l’Algeria senza cibo e acqua, centinaia quelle ancora presenti oggi lungo quelle zone desertiche e inaccessibili salvo per la Croce rossa tunisina.

Vivere nel terrore

Jordan ha 25 anni e viene dal Camerun. Dopo avere attraversato a piedi Niger, Nigeria e Algeria è arrivato a Sfax qualche mese fa per cercare di costruirsi un futuro in Europa. «Non riesco neanche più a ricordare quante volte sono partito. Dopo che sono esplose le violenze mi sono chiuso a casa con i miei amici. Nessuno ha più lavorato e non siamo usciti neanche per comprare acqua e cibo per paura di possibili aggressioni. Per fortuna altri tunisini ci hanno aiutato come potevano ma ho vissuto col terrore per giorni. L’altro giorno sono uscito di casa per cercare un lavoro, un poliziotto mi ha fermato per strada e mi ha rubato il telefono.

Non si può andare avanti così. Ho degli amici che non sento da settimane dopo che sono stati deportati nel deserto», è il racconto sospirato che Jordan fa a casa sua in uno dei quartieri più popolari della città: un ingresso, due stanze, una cucina senza frigo e con una bombola a gas per un totale di sei persone. «Ora però il proprietario vuole che ce ne andiamo subito», conclude il giovane.

Pensare che nella regione i casi di deportazioni e le violenze quotidiane siano un’eccezione è sbagliato. In particolare i respingimenti sono una chiara politica utilizzata da alcuni paesi del Nord Africa per gestire il fenomeno migratorio. Se in Tunisia questi episodi hanno assunto evidenza grazie alle denunce di una società civile presente e ancora attiva rispetto a un quadro istituzionale sempre più autoritario dal 25 luglio 2021, momento del colpo di forza del presidente Saied quando ha azzerato il parlamento e sciolto il governo, ci sono alcune zone grigie nel resto del continente dove le deportazioni sono all’ordine del giorno.

Come in Algeria dove l’organizzazione Alarm Phone Sahara ha stimato in quasi 20mila le persone che sono state deportate verso il deserto al confine con il Niger: «Questo incremento è molto grave e s’iscrive in un aumento delle persecuzioni contro i migranti subsahariani in tutti i paesi del Maghreb. È stato già raggiunto il totale rispetto a tutto il 2022», è la denuncia dell’associazione.

Il telefono di Daina

Le testimonianze raccolte parlano di persone che vengono prelevate con la forza dalle loro abitazioni, sono numerosi i casi di violenze e furti da parte delle autorità algerine, e gettate al Point-zéro, un lembo di terra letteralmente di nessuno e distante pochi chilometri da Assamaka, la prima città raggiungibile a piedi una volta arrivati in Niger. Sono stati registrati casi di donne incinte, migranti arrivati in stampelle a causa dei pestaggi subiti dalle forze di sicurezza e altri arrivati in condizioni di disidratazione acuta.

Una prassi che è stata registrata anche in Marocco e in Libia. Qui l’ultimo caso di deportazione di massa risale a giugno 2023, un mese prima che cominciassero anche in Tunisia. Le forze di sicurezza di Bengasi hanno espulso dal paese 4mila persone (la maggior parte di origine egiziana) verso il confine con l’Egitto. Poco più della metà era in una posizione irregolare. Secondo le autorità de Il Cairo la restante parte aveva tutti i diritti per restare in Libia.

È tuttavia in Tunisia che questo tipo di azioni fa più rumore. Se anche negli scorsi anni sono stati registrati casi di respingimenti di massa nei confronti dei migranti provenienti dal confine sud, oggi la situazione è completamente diversa e fa riferimento a deportazioni che con la Libia non c’entrano nulla. A Sfax lo scenario è desolante: a oggi ci sono centinaia di persone costrette a vivere per strada o nei campi di ulivo fuori dalla città dopo aver perso la casa e ogni tipo di speranza. I dati confermano che la Tunisia non può più essere considerata un paese terzo sicuro: le 7.359 partenze della scorsa settimana dal piccolo Stato nordafricano sono il numero più alto di sempre.

Cifre registrate dopo la firma il 16 luglio scorso del memorandum d’intesa tra Tunisi e l’Unione europea per un piano di investimenti da più di un miliardo di euro alla presenza della commissaria europea Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Bruxelles non si è mai espressa sulle immagini provenienti dalla Tunisia nonostante le numerose denunce da parte di diverse organizzazioni internazionali e locali. L’obiettivo della visita era di dare un sostegno visibile alla Tunisia per il blocco delle partenze dopo i 40mila arrivi a Lampedusa da inizio anno. Un impegno rafforzato con il processo di Roma iniziato lo scorso 23 luglio che ha visto il presidente della Repubblica Kais Saied come ospite d’onore.

Nel frattempo dai luoghi delle deportazioni continuano ad arrivare testimonianze: «Mi hanno deportato nel deserto con l’Algeria il 6 luglio scorso insieme ad altre 200 persone - è il racconto di Daina, originaria del Camerun, a Domani - dopo siamo rimasti in sei, incluso un bambino di tre anni. Abbiamo cominciato a camminare per giorni senza acqua e cibo. Gli altri non mi hanno voluto seguire in Algeria e così mi sono trovata sola e sono riuscita ad arrivare ad Algeri. In questo momento mi trovo a Tebessa in attesa di rientrare in Tunisia ma sono ripresi i respingimenti. Insieme a un gruppo di persone ci stiamo nascondendo dietro le montagne per poi attraversare ma sono senza acqua e soldi. Se riesco richiamo domani per fare sapere se sono riuscita a entrare nel paese. Spero di avere il cellulare ancora carico». Oggi quel telefono non squilla più.

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