Una tipica e tranquilla domenica a Tunisi è stata segnata dalla ripresa di qualcosa che non si vedeva da settimane: una manifestazione contro la stretta imposta dal presidente della Repubblica Kais Saied il 25 luglio scorso.

Questa volta a cambiare è stato il luogo. Da avenue Bourguiba, l’epicentro della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2011 e delle proteste che fino a un mese fa interessavano la capitale, gli oppositori di Saied si sono trasferiti vicino al parlamento, al Bardo. Una scelta densa di significato.

Non solo perché l’Assemblea dei rappresentanti del popolo da più di tre mesi ha cessato le sue attività per decisione del presidente, ma anche per la sua vicinanza a uno dei luoghi più sensibili del paese. E non è un caso che gli accessi alla piazza siano stati presidiati da un gran numero di agenti, impegnati a controllare ogni accesso ai lunghi viali che portano al parlamento, cosa che ha ridotto sensibilmente il tasso di partecipazione.

Almeno tremila persone sono riuscite a recarsi al Bardo per esprimere la loro indignazione contro quello che viene considerato un colpo di stato. I cori “Non accetteremo un nuovo dittatore, non indietreggeremo” e “Libertà! Libertà! Fine allo stato di polizia” hanno riecheggiato per ore lungo uno dei quartieri più residenziali di Tunisi.

Misure eccezionali

Il 25 luglio scorso, giorno della festa della Repubblica, il presidente della Repubblica Kais Saied ha applicato l’articolo 80 della Costituzione imponendo misure eccezionali per salvaguardare il paese da una feroce crisi economica e politica. In sostanza, ha congelato il parlamento e sciolto il governo del premier Hichem Mechichi sostenuto dal partito di ispirazione islamica Ennahda, con cui da mesi era in conflitto aperto.

Nel corso delle settimane successive i poteri straordinari di Saied sono diventati più stabili con l’emanazione del decreto presidenziale n° 117 del 22 settembre, che ha assegnato i pieni poteri al responsabile di Cartagine a data da destinarsi. A nulla sono servite le nomine della prima premier donna del mondo arabo Najla Bouden Romdhane e della sua squadra di governo, al momento con pochi poteri per mettere mano ai veri problemi del paese: la crisi economica che va avanti da più di dieci anni e la corruzione, da molti tunisini considerata come il vero cancro del piccolo Stato nordafricano.

Tutto questo ha portato la Tunisia a spaccarsi in due: da una parte i sostenitori di Saied, maggioritari e convinti che la classe politica pre 25 luglio fosse da scartare a priori, soprattutto i partiti presenti in parlamento incapaci di portare avanti le riforme strutturali di cui il paese ha bisogno; dall’altra gli oppositori del presidente, a cui viene chiesto a gran voce di ripristinare l’ordine democratico inaugurato dopo la Rivoluzione del 2011 e capitanati dal costituzionalista Jahouar Ben M’barek, a oggi il volto più riconoscibile tra chi si sta opponendo a Kais Saied.

Il grado di tensione attorno al reset istituzionale del 25 luglio ha vissuto uno dei momenti più acuti proprio nella giornata di ieri, quando manifestanti e polizia si sono scontrati apertamente per il controllo della piazza. Il ministero dell’Interno ha inoltre rilasciato un comunicato per annunciare l’arresto di diverse persone in possesso di armi bianche.

«Io sono un’attivista dei diritti umani, ci siamo battuti contro Ben Ali e adesso siamo pronti a continuare a dire di no a questo colpo di Stato noi vogliamo la democrazia e la libertà di espressione. Fino a quando il presidente metterà da parte la Costituzione continuerò a dire di no. Nel 2019 ho votato Saied, oggi sono pentita. Preferirei avere lasciato la scheda bianca», dice Myriam, una manifestante che non ha voluto dire il suo cognome.

Nella lunga mattinata quasi estiva di Tunisi c’è stato spazio anche per il primo discorso pubblico di Jahouar Ben M’barek, leader del movimento Cittadini contro il colpo di stato e ormai destinato a intraprendere la via della politica.

Prima inneggiando la folla con invettive contro il presidente e per il ripristino della democrazia, dopo con alcune dichiarazioni alla stampa per delineare le rivendicazioni del “suo” popolo: «Chiediamo il ritorno del parlamento ed elezioni anticipate, dobbiamo ripristinare la legalità. Abbiamo bisogno di un governo di salute nazionale in grado di impegnarsi a livello internazionale. Quello attuale non può farlo perché è incostituzionale, abbiamo bisogno di aprire un dialogo che possa definire il futuro del paese».

Attacchi alla stampa

La stampa è stata bersaglio di pesanti contestazioni da parte dei manifestanti. Al canale Al Arabiya, emittente degli Emirati Arabi Uniti, è stato impedito di trasmettere in diretta, mentre diversi slogan di protesta sono stati rivolti contro la Francia e i suoi media.

Una tensione evidente, palesata anche dalle parole degli stessi manifestanti: «Gli occidentali, soprattutto da un punto di vista dei media, deformano l’informazione e per questo da semplice cittadino non voglio rilasciare interviste». Piccoli segni di insofferenza, accompagnati da slogan espliciti come “Francia vattene!”. La composizione della piazza era eterogenea: manifestanti indipendenti hanno affiancato la massiccia presenza di militanti ed elettori di Ennahda, il partito più colpito dalle decisioni di Saied, e di Al Karama, il partito radicale islamico.

Chiusa la manifestazione di ieri che promette di assumere altre forme in futuro, le prossime settimane rimangono delicate per l’agenda del presidente della Repubblica. Oltre a una crisi istituzionale e politica da risolvere, altri due dossier stanno scaldando la società civile. Il primo e più recente è ambientale e riguarda la crisi dei rifiuti nel distretto di Agareb alle porte di Sfax, seconda città del paese e uno dei polmoni economici della Tunisia.

Dopo la chiusura della discarica locale dopo una sentenza giudiziaria del 2020 e per raggiunto limite di capacità, da inizio ottobre Sfax è stata letteralmente invasa di rifiuti. L’8 novembre, in uno stato di crisi assoluta, la decisione di riaprire il bacino di Agareb ha acceso l’ira della popolazione locale con assalti ai posti di polizia e proteste massicce. Il bilancio è stato di un morto negli scontri con la polizia e uno sciopero generale indetto dall’Ugtt, il sindacato più importante del paese.

Economia al collasso

L’altro dossier è economico. Le finanze dello stato sono quasi esaurite, il debito pubblico rappresenta ormai il 100 per cento del Pil. C’è un buco di 3 miliardi di dinari (quasi 1 miliardo di euro) nel budget dello stato e la legge di bilancio per il 2022 non è stata abbozzata. Al momento i colloqui per un prestito da 4 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale sono stati interrotti dal colpo di mano del 25 luglio e solo ora, in cambio di ingenti tagli alla spesa pubblica, potrebbero essere ripresi dal governo Romdhane.

In Tunisia oggi ci sono tre crisi: istituzionale, economica e ambientale. Tre elementi che promettono di presentare il conto nei prossimi mesi, specialmente a gennaio quando le rivendicazioni socio-economiche dei tunisini toccano abitualmente il loro apice.

«Oggi siamo riusciti a mettere giù un piano per uscire dalla crisi, adesso vogliamo riunire tutti gli attori della società civile tunisina, non contiamo sull’aiuto da parte del presidente. Saied non parla con nessuno nonostante le domande di negoziazione che gli sono state poste in queste settimane», queste le parole conclusive di Ben M’barek. Un silenzio presidenziale che ha attirato l’attenzione anche di Amnesty International, la quale ha emesso un comunicato per denunciare il ruolo dei tribunali militari nei processi contro diversi civili, rei di avere criticato gli avvenimenti del 25 luglio scorso.

 

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