Il caporalato non è più solo un problema del Sud: si annida anche tra le vigne del Barolo e le serre del Nord, dietro contratti falsi e paghe da fame. Un sistema invisibile che sfrutta i più deboli per reggere i prezzi imposti dalla grande distribuzione. Il nuovo report svela le ombre dietro il cibo che arriva sulle nostre tavole
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
«Sono arrivato in Italia a febbraio 2023. Alcuni amici ad agosto mi hanno portato ad Alba (in Piemonte, ndr) e lì, alla stazione, un uomo ci ha chiesto se avevamo bisogno di lavorare.
Il giorno dopo siamo andati nelle vigne. Lui ha preso i nostri documenti, ci ha detto che servivano per i contratti. La paga doveva essere 7 euro all’ora. Lui non ci pagava. Allora gli ho chiesto i nostri soldi e lui ha iniziato a discutere e poi a picchiare il mio collega».
Parla così uno dei lavoratori protagonisti di un video diventato drammaticamente «virale» lo scorso anno, relativo all’inchiesta giudiziaria Iron Rod («bastone di ferro»), chiamata così dall’arnese usato per picchiare un bracciante tra i filari delle Langhe, proprio quelli che l’Unesco nel 2014 ha scelto di inserire nella lista del patrimonio mondiale dell’Umanità.
Terra!, nel nuovo report sul caporalato, Gli ingredienti del caporalato - Il caso del Nord Italia, ha intervistato uno dei protagonisti di quelle immagini.
Una delle tantissime testimonianze raccolte tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia.
Il cambiamento
Come conferma il report infatti, se cerchiamo il caporalato, non dobbiamo più guardare solo a sud.
È tra i filari delle Langhe, nelle serre lombarde, nelle campagne del Veneto. È ovunque, anche nelle filiere più ricche.
Oggi però lo sfruttamento non si vede più a occhio nudo.
Si nasconde dietro buste paga apparentemente in regola, che mascherano orari estenuanti e straordinari extra busta; cooperative fantasma con sedi fittizie, finte partite Iva, società che esistono solo su carta.
Un sistema che sfrutta violentemente soprattutto persone straniere. Un tempo, nelle Langhe del Barolo, nel Veneto del Prosecco, nel Friuli dei vini del Collio, a vendemmiare erano le famiglie del posto. Oggi, per i quantitativi che finiscono sul mercato, quella manodopera non basta più.
E chi lavora nei campi e raccoglie, lo fa spesso senza formazione, solo in attesa di un’alternativa migliore.
«È normale che le persone considerino il lavoro in agricoltura come un ripiego e cercano di diventare operai di fabbrica, con paghe migliori», racconta un intermediario intervistato nel report in Friuli Venezia Giulia.
Anche perché il rischio è quello di cadere nelle mani sbagliate, spesso quelle di connazionali che hanno subito episodi di sfruttamento e che quindi conoscono bene i bisogni materiali dei migranti.
Il caporalato diffuso nelle campagne italiane colma i vuoti dei servizi pubblici e in sintesi funziona così: le aziende agricole pagano le cooperative spesso rispettando il contratto provinciale, ma i lavoratori ricevono pochissimo.
E le aziende sanno, non sanno o fingono spesso di non sapere. La cosa importante è assicurarsi la manodopera necessaria alla raccolta, specialmente nei picchi stagionali. Trovarla non è semplice, lo dicono tutti.
E gli intermediari fanno guadagnare tempo ma anche soldi e si occupano di assicurare servizi che nessuno riesce a garantire: l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, i trasporti verso i campi, l’alloggio.
Il caporalato è quindi diventato complesso, e tiene dentro i prezzi bassi del cibo, i bassi margini per i produttori, gli scarsi salari dei cittadini, la precarietà dei lavoratori e le pratiche imposte dai supermercati in cui facciamo la spesa.
Questi sono gli «ingredienti del caporalato», cioè quei fattori che, messi insieme, creano sfruttamento o le migliori condizioni possibili per alimentarlo.
«Non siamo noi a decidere i prezzi di ciò che produciamo», racconta un produttore intervistato nel report di Terra!.
Oggi l’80 per cento dei consumi alimentari passa dalla cassa di un supermercato.
Il potere della Gdo è enorme e cresce ogni giorno. I supermercati impongono prezzi bassissimi ai produttori, che spesso si trovano costretti a vendere al di sotto dei costi di produzione.
E, quando il margine di guadagno scompare, qualche volta lo sfruttamento diventa l’unico modo per restare sul mercato.
Tutto ciò non può essere un alibi, eppure per molti produttori è la realtà.
Ecco perché per combattere il caporalato bisogna renderlo antieconomico. Bisogna una volta per tutte riuscirci.
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